LEHÁR La vedova allegra F. M. Capitanucci, S. Ciani, B. Taddia, S. Pacetti, M. Pierattelli, R. Maietta, D. Giorgelè, A. Fornari; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Pablo Assante regìa Augusto Fornari scene Enrico Musenich costumi Elena Pirino
Genova, Teatro Carlo Felice, 25 luglio 2015.
Sono stato spettatore di questa nuova produzione del Carlo Felice, ultimo spettacolo della stagione, proprio all’ultima recita. Il clima di euforia vacanziera e di “arrivederci alla prossima” che rimbalzava dal palcoscenico all’uditorio, non folto ma caloroso, conferiva un senso particolare a tutta l’operazione: congedare il pubblico dell’ennesima stagione travagliata per il teatro e per gli enti lirici in genere, con un titolo che trasmette speranza e gioia di vivere, e in un allestimento che consentiva assieme ironica autoreferenzialità e, in qualche misura, autocelebrazione. Il regista (nonché brillante interprete di Njegus) Augusto Fornari infatti ha associato le sorti periclitanti del regno immaginario di Pontevedro a quelle della lirica italiana, e ha quindi sovrapposto una differente matrice alla vicenda narrata dalla triade Lehár-Léon-Stein: qui Hanna Glawari non è vedova di un banchiere bensì di un ex-ministro dello spettacolo, e la sua eredità consiste in un finanziamento capace di risanare i bilanci dei vari teatri in crisi. Ragion per cui attorno a lei si accendono le brame di pretendenti come il Visconte Lascalà, Raoul de la Feniche e così via, mentre il trionfatore non è più il Conte Danilo ma, ovviamente, Carlo Felice… Pur con qualche insistenza di troppo e qualche spaesamento inevitabile tra Genova e Parigi, l’idea è parsa abbastanza garbata e ha consentito di mettere in scena il teatro genovese in tutta la sua consistenza (nel primo atto il fondale dipinto rimandava l’immagine della platea, ma inserita nel paesaggio cittadino) anche umana, in quanto il palcoscenico era costantemente abitato dalle maestranze e dagli organici del Carlo Felice; il testo ampiamente modificato per l’occasione era denso di ammicchi inter nos, come la descrizione delle Grisettes, in costume di personaggi operistici (Lucia viene definita da Njegus “una ragazza d’oro, anzi… d’Argento, un po’ troppo… sanguigna”, mentre Carmen è una “splendida cubana”, con riferimento a recenti allestimenti genovesi); soprattutto, lo spettacolo costituiva un costante Inno alla magìa del Teatro d’opera, magari ingenuo ma sincero, rappresentato forse nella maniera più eloquente nella scena del secondo atto in cui Hanna balla il valzer a turno con un macchinista, una maschera, una violinista…
Insomma, Fornari magari esagera quando parla di vocazione “politica” dell’operetta e di una sua trasformazione “brechtiana”: ma l’attualizzazione in chiave satirica e locale non è certo estranea allo spirito di questo particolare genere teatrale (si pensi al monologo di Frosch nel Fledermaus) e personalmente non ho trovato l’operazione così fuori stile come diversi commentatori hanno annotato.
Il cast dello spettacolo a cui ho assistito differiva per tre ruoli principali da quello impegnato alla Prima (D’Annunzio Lombardi – Mazzucato – Safina), e cambiava mano anche la bacchetta, passata da Adam Krieger a Pablo Assante, maestro del coro del teatro: oltre ad aumentare la connotazione di “festa semiprivata” dell’allestimento, la scelta si è rivelata azzeccata, in quanto il direttore argentino ha saputo non solo assicurare ai cantanti un sostegno adeguato, prevedibile date le peculiarità professionali di Assante, ma offrire una visione stimolante della partitura, letta con pertinenza stilistica ma anche con una vena latina, negli struggimenti lirici come nelle giovialità leháriane. Quanto al cast vocale, va innanzitutto riconosciuto che in ogni caso si trattava di cantanti “veri” e non, come accade a volte in Italia con l’operetta, di vocalità crossover ospitate in un teatro lirico. Se Sandra Pacetti ha alle spalle qualche anno di carriera di troppo per affrontare con la necessaria nonchalance un personaggio e una vocalità come quella di Hanna Glawari, la coppia di protagonisti maschili ha risolto i relativi ruoli basandosi più sulla simpatia che sull’eleganza: Bruno Taddia, malgrado una voce un po’ corta, è stato un Danilo/Carlo Felice brillante in scena, eppure in grado di dar voce a quella malinconia sotterranea che spesso innerva le melodie di Lehár; Manuel Pierattelli ha dato invece vita a un Camillo solare al limite dell’ingenuità, dotato di particolare immediatezza espansiva in virtù del timbro accattivante. Sonia Ciani era una Valencienne di voce un po’ piccola, ma spigliata e attraente in scena: Fabio Maria Capitanucci un consistente Barone Zeta, e in generale il contributo di tutti gli attori e fattori in gioco è stato positivo.
Roberto Brusotti