Chi mastica un po’ di economia della cultura, si sarà certamente imbattuto nei due “fatidici” nomi di William J. Baumol e William G. Bowen, i teorici, già negli anni Sessanta, della cost disease: una delle loro affermazioni più celebri è che, per le istituzioni culturali, lo stato di crisi è una condizione permanente. Nulla lo prova più del caso dell’Orchestra Verdi, che da oltre vent’anni si trova a lottare con difficoltà a far quadrare i conti, anche e soprattutto per colpa di una politica che non ne ha mai riconosciuto veramente il ruolo artistico e sociale davvero senza pari. Dalla sua fondazione sino a pochi mesi fa, la Verdi si è identificata con Luigi Corbani: ora che le sue dimissioni aprono una nuova fase nella vita della Fondazione milanese, mi è parso il caso fare qualche domanda a Ruben Jais, direttore artistico e coordinatore generale, nonché presenza viva nelle stagioni dell’orchestra da moltissimi anni. Gli ho subito chiesto, quindi, cosa cambia alla Verdi nel dopo Corbani.
“Cerchiamo di portare avanti quello che la Verdi rappresenta da 23 anni per Milano: un’orchestra sinfonica che propone un repertorio importante, dal Barocco alla Contemporanea, e che crede di essere servizio sociale per la città, anche d’estate, visto che non esiste più la lunga pausa di tre mesi di una volta. Portiamo avanti il nostro spirito fondativo, nonché le idee che hanno guidato sempre l’operato di Corbani, incluso l’assestamento dei conti ed il rinnovo di un rapporto con le istituzioni locali e nazionali”.
Qual è la situazione attuale, a livello economico?
Abbiamo dei debiti pregressi che stiamo affrontando: quest’anno abbiamo avuto un finanziamento extra di 3 milioni dal ministero, che per noi è stato davvero importante. Tenga conto che nel 2015 il ministro Franceschini ci aveva inserito, il primo aprile, all’interno dell’art. 22, le ICO (Istituzioni Concertistico-Orchestrali) ma poi, per una questione formale, la commissione musica del ministero ha rinviato la nostra ammissione alla categoria fino al 2018; al momento noi siamo categorizzati fra i “complessi strumentali”, che ci permette di raggiungere un finanziamento inferiore. Nel gruppo delle ICO, infatti, secondo i tre parametri della qualità, quantità e qualità indicizzata, eravamo subito scattati al primo posto e quindi avremmo dovuto ricevere un contributo superiore a qualsiasi altra ICO italiana…
…e questo, credo, non vi ha attirato troppe simpatie…
Ovviamente no, le altre ICO hanno fatto barriera. Ora attendiamo il fatidico 2018, ma nel frattempo sono in vista mutamenti del FUS, quindi bisognerà capire le novità che il legislatore apporterà. Quest’anno chiudiamo in pareggio di bilancio, il che per noi è fondamentale: la nostra politica è sempre stata quella della massima attenzione ai costi, di una gestione oculatissima, specie ora in presenza di questo contributo extra di tre milioni. Vogliamo rientrare dal debito con una gestione oculata delle risorse.
Anche a livello artistico c’è un grosso cambiamento: Xian Zhang lascia il suo ruolo.
Sì, dopo sette anni non sarà più direttore musicale, pur continuando a lavorare con noi (4 settimane nel 2017). Ora vogliamo prendere un anno sabbatico e valutare, dopo un confronto con l’orchestra, una serie di candidature e proposte che ci sono state fatte, per portare avanti la direzione musicale. Per la prossima stagione, avremo 4 figure di riferimento, ossia la stessa Zhang e i Maestri Flor, Fournillier, Bignamini, tutti direttori con cui abbiamo grande familiarità e ci guideranno in repertorio diversi: con Fournillier avevamo iniziato a collaborare nel 2011 per una Carmen in Oman, all’inaugurazione del nuovo teatro di Muscat, e insieme affronteremo il repertorio francese, non sempre così presente nelle nostre stagioni, nonché il concerto in Scala del 10 settembre prossimo.
Qual è stato l’apporto principale di Xian Zhang all’orchestra?
Xian è donna molto precisa, una grandissima lavoratrice, instancabile, e in concerto è una “macchina da guerra” che non sbaglia mai, dà molta sicurezza ai musicisti anche in repertori impegnativi: con lei abbiamo eseguito moltissima musica, il grande repertorio sinfonico tedesco e americano da Mozart in avanti, fino a Mahler, Stravinski, Berlioz — ricordo una sua stupenda Sinfonia fantastica — Britten, con un Requiem portato sia alla Scala che in Auditorium.
Un cartellone ampio come quello della Verdi permette la presenza del grande repertorio e di rarità allo stesso tempo: cosa vorrebbe evidenziare fra le proposte della prossima stagione?
Mi piace molto il secondo programma di stagione, costruito con la Tempesta, l’Isola dei morti e la Quarta di Ciaikovski, che trovo molto interessante; poi segnalo le “None” di Beethoven, Bruckner, Shostakovich e Mahler dirette da Flor. Per Beethoven si tratta di un gradito ritorno: la prima Nona di Beethoven in assoluto che la nostra orchestra e coro hanno suonato fu con lui, nel 1999, in un auditorium inaugurato da due mesi e nel primo anno di direzione musicale del Maestro Chailly, che però si ammalò all’ultimo durante le prove e dovemmo trovare all’ultimo un sostituto. Da Zurigo un “tale” signor Pereira ci consigliò Claus Peter Flor: da lì iniziò un rapporto stupendo con un musicista che amiamo particolarmente per la sua capacità di rendere la musica viva e vibrante, tanto che la Terza di Mahler dell’anno scorso è stata per noi un evento. L’orchestra ha nei suoi confronti un rispetto totale: sa che quanto Flor dice e chiede corrisponde a verità.
Una critica che taluno muove alla nuova stagione è l’assenza di star nei ruoli di solista, troppo spesso sostituiti con le prime parti dell’orchestra: condivide l’accusa?
Non credo che sia vero: abbiamo grandi musicisti, da Lucchesini a Carcano, Ashkar, Nordio, Fazil Say, Albanese. Non so cosa si intenda con “grandi nomi”… La nostra orchestra, al di là di tutto, ha sempre avuto il privilegio e l’onore di scoprire grandi talenti, sia come direttori che come solisti: Jurowski è nato alla Verdi, e così Bignamini, che ora ha una carriera di primissimo piano. I talenti giovani sono la nostra storia: la scorsa settimana ha debuttato un 23enne olandese, Lucas Jussen, un genio assoluto del pianoforte che ha fatto le Variazioni su un tema di Paganini di Rachmaninov. Il nome è importante, certo, ma noi crediamo che sia meglio offrire al nostro pubblico giovani di grandissimo talento: segnalo, a tal proposito, il violinista italiano Giovanni Andrea Zanon. E poi riteniamo immorale spendere cifre vertiginose per un singolo cachet…
Lei è direttore della Verdi Barocca, che ha sofferto più di tutti i tagli inferti dalla crisi economica: qual è la situazione attuale?
Tenga presente che l’orchestra sinfonica è fatta da dipendenti della Fondazione, mentre la Barocca è fatta da altri professionisti pagati a prestazione: quindi al momento non ci esibiamo in Auditorium, ma facciamo concerti in altre sedi, a Monza, a Lecco, a gennaio a Dubai, a settembre abbiamo preso parte a Mito. L’orchestra viene pagata e porta quindi risorse alla Fondazione. Artisticamente, sviluppiamo la parte di repertorio che ci compete: al momento i Dixit di Händel e Vivaldi, poi Quattro stagioni e Gran Mogul e altri progetti dedicati a Mozart.
Nicola Cattò