DONIZETTI L’elisir d’amore S. Gamberoni, F. Meli, F. Longhi, R. De Candia, M. Calcaterra, L. Alberti; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Daniel Smith regìa Filippo Crivelli scene Emanuele Luzzati costumi Santuzza Calì
Genova, Teatro Carlo Felice, 19 marzo 2017
Rivedere il classico allestimento Crivelli-Luzzati-Calì è come ritrovare periodicamente un vecchio amico (questa è la quinta stagione in cui viene riproposto al Carlo Felice, da quel febbraio 1994 in cui fu creato) che ogni volta ci sorprende per quanto riesca a rimanere sempre in forma. In effetti il segreto, o uno dei segreti, della concezione di questo Elisir è proprio il fatto che sia situato in una dimensione senza tempo: quella delle favole, dei disegni per l’infanzia, ma anche delle forme più sorgive di teatro popolare (vedi il fantasmagorico armadio-teatrino che qui sostituisce il tradizionale carro dorato di Dulcamara); uno spettacolo in cui gioco, magìa, stupore, un pizzico di malinconia e un velo di ironia si mescolano in quantità che appaiono sempre nuove a ogni riproposta, anche a seconda della componente musicale che all’interno di questo coloratissimo scenario prende vita. E in questo caso alla favola dell’allestimento si sovrapponeva, se ci si passa il termine da domenica televisiva, la favola di una coppia nella vita e nell’arte (e cara al pubblico genovese), quella formata da Francesco Meli e Serena Gamberoni, che ha ottenuto alla Prima un trionfo personale: quelli che dopo “Sappilo alfine” si abbracciavano felici tra l’ovazione del pubblico, in effetti, erano chiaramente Francesco e Serena, ancor più che Nemorino e Adina. Molti del resto li ricordavano nella ripresa di Elisir del 2004, ritrovandoli ora, un matrimonio e tre figli dopo, promossi l’uno dal secondo al primo cast, l’altra da Giannetta ad Adina.
Nemorino è uno dei ruoli su cui si è edificata la fama di Francesco Meli e questa ennesima occasione ce ne ha ricordato i motivi: egli sa rendere particolarmente credibile la visione del personaggio di Crivelli e Luzzati, un semplicione dal cuore d’oro, perso nel suo amore ingenuo e puro (tanto da non notare neppure che Adina si cava maliziosamente le calze durante il primo duetto) che lo induce a improvvise e intensissime introspezioni, alle quali la direzione d’orchestra in questa occasione era particolarmente sensibile. La proiezione vocale non ha termini di paragone negli altri protagonisti in scena, convergendo a disegnare una fisionomia tenorile talmente a tutto tondo da risultare paradossalmente quasi antica, in tempi in cui è arduo trovare voci impostate in maniera altrettanto ortodossa: nel quadro di questa concezione si inserisce pienamente “Una furtiva lacrima” ricca di indugi e mezzevoci, e bissata, come si suol dire, a furor di popolo. La voce della Gamberoni è in natura meno ricca di armonici, ma il personaggio viene tratteggiato con intelligenza e misura, risultando particolarmente coinvolgente nella presa di coscienza dei suoi sentimenti per Nemorino a partire dal Quartetto “Dell’elisir mirabile”; preannunciata, a ben vedere, dal singolare risalto offerto in questa occasione alla ripresa di Adina del Larghetto del Finale primo (“Lo compatite”). La direzione dell’australiano Adam Smith, in effetti, colpiva soprattutto per una certa inclinazione ai contrasti espressivi, passando da momenti incalzanti a languori quasi esasperati, il che occasionalmente induceva tutti a qualche imprecisione.
Federico Longhi incarnava scenicamente alla perfezione la visione un po’ marionettistica che l’allestimento proietta di Belcore: la voce appare appena grigia, ma l’interprete è attento ed eloquente per dizione. Stesse qualità (e maggiore rotondità vocale) caratterizzano il Dulcamara di Roberto De Candia, magari un po’ carente di puro carisma nella Cavatina ma in crescendo durante l’opera, e la Giannetta di Marta Calcaterra; menzione di merito per il vivacissimo mimo che affianca quasi costantemente Dulcamara, Luca Alberti. Ottima la prestazione del coro e dell’orchestra, giustamente fatta salire dal direttore in palcoscenico per godere pienamente degli applausi di rito.
Roberto Brusotti