PUCCINI Tosca K. Opolais, M. Alvarez, M. Vratogna, A. Tsymbalyuk, P. Rose, P. Tantsits, D. Williams, W. Fink; Philharmonia Chor Wien, Cantus Juvenum Karlsruhe, Berliner Philharmoniker direttore Simon Rattle regia Philipp Himmelmann scene Raimund Bauer costumi Kathi Maurer luci Reinhard Traub
Baden-Baden, Festspielhaus, 13 e 17 marzo 2017
Il Festival di Pasqua di Baden-Baden è una delle rare occasioni in cui è possibile ascoltare i Berliner Philharmoniker alle prese con il repertorio lirico. Quest’anno la scelta del loro attuale Chefdirigent Simon Rattle è caduta su Tosca. Occorre subito rimarcare che l’esito complessivo della produzione non è stato all’altezza delle precedenti esibizioni in loco dell’orchestra berlinese. Non è, ovviamente, un tema di qualità del suono. Anche questa volta si resta ammirati e ammaliati dalla morbidezza setosa degli archi, dalla lucentezza dei legni, dall’opulenza degli ottoni. Il nitore e la definizione con cui i dettagli dei singoli strumenti affiorano dal ribollente bacino orchestrale è stupefacente; così come stupefacente è l’arco dinamico, che si estende da pianissimi impalpabili, eppur vibranti, fino a dilagare in fortissimi fragorosi e compatti. Alcuni esempi, spigolati qua e là: l’esposizione delle due brevi cellule tematiche iniziali, energiche e secche come frustate e la lieve carezza dei flauti che introducono il Recondita armonia, che evoca i colori chiesti dal pittore. Saltando al terzo atto: l’accompagnamento al dialogo tra il carceriere e Cavaradossi, che ha un sapore beethoveniano e l’addio alla vita del protagonista, nel quale l’incedere esitante del clarinetto sul sussurro degli archi descrive il suo lancinante rimpianto, mentre il cupo rintocco dell’arpa non accorda spazio alla speranza. Ma insomma: tutto ciò è ben noto e scontato; ribadirlo è come portare vasi a Samo. Né si può dire che il concertatore non abbia accudito le voci con la necessaria dedizione, ammansendo, quando necessario, la tracotanza dell’orchestra ed evitando, quindi, di coprire i solisti (tutt’altro che eccelsi, come si dirà appresso). Cosa non andava, dunque? Semplice: mancava il Teatro. L’ostentazione di onnipotenza della compagine berlinese, nelle pagine più tese come in quelle più sommesse, è parsa, il più delle volte, improntata ad una concezione sinfonica della partitura piuttosto che dettata da esigenze drammatiche. La responsabilità è, naturalmente, di Rattle, che è parso alquanto estraneo all’universo pucciniano, che si fonda sul cosiddetto “canto di conversazione” prima ancora che sul commento orchestrale. Per quanto varia la dinamica e per quanto ricca la tavolozza timbrica, il risultato è dunque quello di una Tosca singolarmente opaca sul piano della resa teatrale, ulteriormente affossata, nella circostanza, da una messa in scena insoddisfacente.
È arduo sottrarre Tosca dal contesto storico e ambientale nel quale Puccini, Illica e Giacosa (e, prima di loro, Sardou) l’hanno collocata. Ci vorrebbe un regista di genio per inventarsi qualcosa che, per esempio, prescinda dall’acre odore di incenso che esala dal Te Deum o che – sempre a titolo esemplificativo – riesca a dare una connotazione diversa all’alba romana del terzo atto, con il suo cielo terso e la sua atmosfera malinconica. Qui invece il finale del primo atto viene rappresentato come il rito di una specie di setta, di cui Scarpia è il leader: i membri sono accomunati dall’abbigliamento e dall’acconciatura ed il loro scopo pare essere quello di abusare del potere, più che esercitarlo. Quanto all’alba romana, essa viene saldata, senza soluzione di continuità, alla fine dell’atto precedente, senza neppure un applauso a marcare il distacco temporale e piscologico da quanto appena accaduto (l’uccisione di Scarpia da parte di Tosca). Un ragazzino, già visto nel primo atto mentre subiva un principio di molestie da parte del Sacrestano (un Sacrestano in odore di pedofilia, tanto per speziare il piatto con un bel cliché…), ricompare in questa circostanza e intona lo stornello mentre contempla, con una certa indifferenza, il cadavere di Scarpia… Fermi ed indiscutibili restando i diritti di scelta dell’interprete, a noi pare che in questo caso il momento scenico ne esca totalmente travisato senza che, in cambio, venga offerta una convincente lettura alternativa. Sorvoliamo poi su altri dettagli della messa in scena come per esempio l’onnipresenza di telecamere e microfoni, che riprendono tutto ciò che accade: l’intero secondo atto si svolge in una sorta di control room stile Grande Fratello, piena di monitor. Sorvoliamo anche su alcuni dettagli inutili e involontariamente comici, come quello di Angelotti che, quantunque ammanettato dietro la schiena, riesce a cibarsi del contenuto del paniere, indossare il “muliebre abbigliamento” procuratogli dall’Attavanti e raggiungere il “podere suburbano” di Cavaradossi; oppure quello di un Roberti in versione femminile, che si mostra al pubblico, dopo la tortura, con il camice insanguinato. Superficiale risulta anche l’approfondimento psicologico dei personaggi, abbandonati a loro stessi per quanto concerne la recitazione. L’unica idea degna di questo nome – peraltro non nuova – è la consapevolezza di Tosca e Cavaradossi che Scarpia ha mentito e che non ci sarà un’esecuzione simulata cui seguirà la loro fuga: donde un duetto che trasuda mestizia e rammarico per ciò che avrebbe potuto essere e non sarà.
I cantanti, infine. Kristine Opolais ha risorse attoriali considerevoli, ma le mette al servizio di una concezione interpretativa del personaggio un po’ datata nel suo indulgere in inflessioni enfatiche e retoriche; la latitanza del regista è qui evidentissima. Sul piano strettamente vocale, i mezzi sono discreti ma nulla più; la propensione al fraseggio sfumato è discontinua. La vocalità di Cavaradossi si muove nell’ambito di una tessitura prevalentemente centrale; esente da soverchie preoccupazioni di ordine vocale, l’interprete potrebbe dunque concentrarsi sui connotati psicologici e caratteriali tipici del personaggio: la spavalderia, l’ironia, la passione, la disperazione. Marcelo Alvarez, oltre ad essere ormai logoro vocalmente, è pigro sul piano del fraseggio, che risulta prevedibile e privo di sottigliezza; e il timbro certo non basta a compensare le manchevolezze tecniche. Marco Vratogna – subentrato all’indisposto Evgeny Nikitin per le ultime due recite – dimentica che Scarpia è tanto più terribile quanto più si mantiene freddo, razionale, signorile; a tratti financo galante. Del resto, laddove è necessario che Scarpia urli o si scomponga, è Puccini stesso a prescriverlo. Vratogna, invece, fa il solito Scarpia, costantemente violento e vociferante. Nelle seconde parti non figura nemmeno un interprete di madrelingua italiana, il che in Tosca è peccato non veniale. Se la cava bene l’Angelotti di Alexander Tsymbalyuk, ma per il resto il panorama è desolante.
Paolo di Felice
© Monika Rittershaus