ORCHESTRA SINFONICA NAZIONALE RAI (musiche di Dvořák) violoncello Mischa Maisky direttore James Conlon
14 maggio 2017
Mitsuko Uchida (musiche di Mozart e Schumann)
15 maggio 2017
Orchestra dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia, direttore Antonio Pappano pianoforte Mitsuko Uchida (musiche di Corrado, Schumann, Mendelssohn)
21 maggio 2017
MOZART Concerto per due pianoforti K 365 MAHLER Sinfonia n. 5 pianoforte
Katia e Marielle Labèque Orchestra dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia, direttore Michael Tilson Thomas
25 maggio 2017
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Golden series all’Accademia di Santa Cecilia, con una sequenza di concerti invero accattivante e pochissimo routinière tanto nei programmi, che negli interpreti. Si apriva – in assenza dei complessi accademici, impegnati in una lunga tournée europea (in autunno sarà la volta degli Stati Uniti) – con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e il suo direttore stabile James Conlon. Il cammino compiuto dalla compagine torinese sotto le sue mani è apparso commendevolissimo: da buona e corretta orchestra, essa s’è trasformata in una sorta di possente macchina da guerra, dal suono pieno, scattante, aggressivo, dalle dinamiche formidabili, precisa e audace in ogni sezione, ma anche forte d’una duttilità e d’una fluidità che non sono la morbidezza pregiate e appena soft dei professori ceciliani, ma il segno d’uno stile, se si vuole decisamente americano, comunque giovane ed entusiasmante. Il programma era un “tutto Dvořák ” schiuso dal Concerto per violoncello e orchestra op. 104, con la presenza carismatica di Mischa Maisky. Un’esecuzione sì fiammeggiante, ma con un lavoro capillare e biunivoco sui colori, sugli improvvisi cedimenti alla soavità del canto e alla nobiltà delle malinconie. Maisky ha, soprattutto nei gravi, un suono ancora superbo e fraseggi d’intrigante passionalità. L’Ottava sinfonia è stata proposta come vera carte de visite dell’OSN RAI: dunque appena più clamorosa di come non sia normalmente nelle corde di Conlon. E certo gli esiti della sezione corni, delle trombe e degli ottoni tutti, erano sensazionali; così come l’avvolgente brunitura dei violoncelli o l’acuminata, luminosa profilatura del flauto. Tuttavia la trama poetica della Sinfonia, bellissima e in nulla inferiore alla più celebre “Dal nuovo mondo”, non solo è rimasta intatta, ma ha mostrato ancor più evidenti le sue sotterranee, palpitanti vibrazioni, la sua libertà meravigliosa e selvaggia. Applausi e successo da derby allo stadio, forse più per Conlon che per Maisky.
La sera seguente, con dame Mitsuko Uchida in récital, lo stesso palcoscenico era luogo di atmosfere, di mondi immensamente diversi. Perché, è vero, la Uchida è un mondo a sé, una dimensione del far musica, anzi dell’“essere nella musica”, peculiare e affascinante. Sin dal suo entrare, andando al pianoforte con rapida semplicità, subito consegnando quel Mozart (la Sonata K 545) ove ella ha oggi pochissimi confronti: per l’infinita varietà di “materiali preziosi” – porcellane, madreperle, smalti, avori, sete – profusi dalle sue lunghe, esili mani; per la contestura strettissima tra fraseggio e dinamica, ove la sottile, continua modellatura del dettato è sempre funzione di mirabili calibrature del peso e del volume; per il prodigioso intarsio fra umanità e metafisica (anche in un brano d’apparente “facilità”) fra trepide increspature del cuore e assolutezza d’astrazioni logiche. Un Mozart che entra di diritto nella perfezione. Seguiva la Kreisleriana op. 16 di Schumann: qui la Uchida compiva (ed invitava a compiere) un viaggio nel mistero, quasi schiudendo una dopo l’altra le porte d’un percorso notturno di stupore e di paura insieme, spegnendo tutti i colori di prima per lasciarvi solo ombre e rapide luminescenze, come di specchi oscuri, come di fugaci presenze. Un lavoro, su questo Schumann, d’incredibile magistero tecnico e di spettacolosa concentrazione mentale. Che dopo l’intervallo non tornava con lo stesso, impervio livello per la Fantasia op. 17: forse meno in sintonia con il Legendenton, con l’andatura epicheggiante richiesta dall’autore, la Uchida ne ha dato una lettura certo analitica, certo vibrante, ma – soprattutto nel suono – non miracolosa come il resto. La ritrovavamo, neppur una settimana dopo, sempre con Schumann, nel Concerto in la minore, al centro d’una serata diretta da Pappano, fra una novità di Pasquale Corrado e la Scozzese di Mendelssohn. Qualche piccola ruga nell’organizzazione tecnica di dame Mitsuko comincia a mostrarsi, (il traguardo dei settant’anni è vicino), purtuttavia il gioco di aristocratiche delicatezze e di cristalline trasparenze, d’ordine e di fantasia, di tinte e di riflessi rarissimi, di relazioni timbriche con l’orchestra (i singoli strumentini sempre; e quei violoncelli nel celebre inciso dell’Intermezzo!), l’abbandono languidissimo ai cantabili, la dovizia di sfumature, hanno dato esiti supremi di poesia e d’eleganza. L’anti-Argerich? Se si vuole, sì, senz’altro. Solo il tempo, del giovane Pasquale Corrado, faceva da incipit al concerto: una commissione dell’Accademia (in memoria dei giudici Falcone e Borsellino), su testi in greco tratti dal Prometeo Incatenato di Eschilo e di vasta quanto acre e tragica materia sonora, sia strumentale che corale. Sir Tony era in gran forma e nella Scozzese ha dato prova di un eccezionale dominio dell’orchestra e di un’energia viva e pulsante dall’inizio alla fine.
Assai atteso, infine, il ritorno in Accademia di Michael Tilson Thomas, con la Quinta Sinfonia del suo prediletto Mahler. Ad inizio di serata c’era il Concerto per due pianoforti K 365 di Mozart, con mesdames Labèque, invero rigide e moderne un fil troppo per il verbo e lo stile del Salisburghese. La sinfonia mahleriana, per contro, ha trovato in Tilson Thomas un interprete di elevatissima statura. Governata interamente a memoria, benché non oggetto di una lunga familiarità tra direttore e orchestra, pure è apparsa come frutto di una maturazione profonda e originale, svolta in una cifra di forte drammaticità, forse di doloroso pessimismo. Quasi il canto, talora il grido, di un “cuore in inverno”, ma che tuttavia non vuol rinunciare a battere, ad emozionarsi, a costo anche di fibrillazioni mortali. Certe ondate violente di suono (negli archi, soprattutto), certe asprezze cercate e ottenute, ribellione più che rassegnazione, un pathos continuo e divorante, ora sotterraneo, ora ferocemente esibito, hanno fatto della lettura di Tilson Thomas qualcosa di non identico all’incisione in studio con la San Francisco Symphony (l’Adagietto qui è stato tutt’altro) e comunque di un’intensità che fino alla sinistra danza del Rondò conclusivo, ha attanagliato noi e il pubblico, poi esploso in una vera ovazione liberatoria. Il concerto era dedicato alle vittime di Manchester.
Maurizio Modugno