BEETHOVEN Missa solemnis soprano Camilla Tilling mezzosoprano Gerhild Romberger tenore Peter Sonn basso Hanno Müller-Brachmann Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Bernard Haitink
Milano, Teatro alla Scala, 23 e 26 giugno 2017
Cosa fa la differenza tra un’ottima esecuzione, precisa, elegante e ordinata della Missa solemnis di Beethoven ed un’esecuzione emozionante e trascinante? Nel caso delle recenti performance firmate da Bernard Haitink, nell’ambito della stagione sinfonica dell’Orchestra Filarmonica della Scala, il tempo trascorso tra la prima di venerdì 23 giugno e la replica di lunedì 26!
La Missa Solemnis è uno dei lavori più controversi di Beethoven. Molti interpreti, infatti, la evitano (tra i casi conclamati più celebri Furtwängler, che a un certo punto smise di dirigerla), altri invece continuano a litigarci per tutta la vita senza riuscire mai a trovare un modo di farla funzionare a tutti i livelli contemporaneamente: espressivo, strutturale, drammatico, logico (Toscanini tra gli interpreti storici). Pensata per solennizzare l’ascesa dell’Arciduca Rodolfo al soglio vescovile, la Missa solemnis inizia il suo cammino compositivo alla metà del 1818, ma nel marzo del 1820, a “incoronazione” avvenuta, Beethoven è ancora ben lontano dall’aver compiuto il lavoro, che giunge a termine solo 2 anni e mezzo più tardi. A rallentare il procedere di Beethoven non solo l’affollarsi di tutta una serie di progetti (la Nona, le Variazioni Diabelli, gli ultimi Quartetti per archi e Sonate per pianoforte), ma anche la sua difficoltà a venire a capo di un progetto musicale-filosofico piuttosto complesso, che vorrebbe appropriarsi del sentimento religioso collettivo e dogmatico della comunità ecclesiale da un punto di vista individuale, razionale e terreno. Dal punto di vista delle forme musicali, Beethoven studia molto: dal gregoriano ai “contemporanei” passando per i polifonisti romani e fiamminghi. Non “potendo” fare come Brahms che rinuncia al testo liturgico ecclesiastico per costruirne uno personale, in occasione del Deutsches Requiem, Beethoven ha il problema di usare la musica come significante del suo pensiero filosofico riguardo alla relazione Dio-Uomo. Naturalmente usare uno strumento principalmente emozionale come la musica per veicolare concetti filosofici non è operazione semplice e Beethoven, compositore che ben sappiamo estremamente sintetico nell’utilizzo delle strutture musicali e armoniche, si trova nella condizione di dover sviluppare un commento musicale completamente diverso che non può fare della sintesi il suo mezzo: troppe sfumature di significato! È un po’ la famosa massima espressa dal regista americano Billy Wilder: se devi mandare un messaggio al mondo scrivi un telegramma, non fare un film! Lo stesso si potrebbe dire al “buon” Beethoven: se dovevi esprimere i tuoi dubbi riguardo ai dogmi religiosi forse era meglio scrivere un pamphlet invece che scrivere una messa.
Difficile se non impossibile, quindi, realizzare una visione musicale completa della Missa solemnis. Forse i più facilitati sono i credenti più profondi alla Giulini, che mettono il testo in primo piano sfruttando il sottotesto musicale come commento, evidenziandone gli aspetti più affermativi. Per gli altri è tutto un gioco di delicato compromesso che può avere più o meno successo a seconda dei casi. Inoltre la Missa solemnis condivide con le altre opere corali di Beethoven l’indifferenza del compositore tedesco alle ragioni della vocalità, rendendo il lavoro dei quattro solisti vocali e del coro un gioco di equilibrismo assai rischioso in cui l’impegno profuso non può mai compararsi al risultato finale. In parole più semplici, possiamo affermare che, eseguendo Beethoven, solisti e coro siano “costretti” a limitare i danni di una scrittura anti-naturale invece di poter sfruttare il testo musicale beethoveniano per esprimersi al meglio.
Eccoci quindi ad Haitink e alle sue esecuzioni scaligere. Il suo approccio “filosofico” alla Missa è ateo, drammatico, per certi aspetti potrei dire quasi teatrale. Una posizione che l’orchestra filarmonica scaligera e, soprattutto, il coro scaligero sono in grado di assecondare al meglio. Venerdì 23, la sera della prima, alla presenza dei microfoni radiofonici, il risultato musicale è di estrema professionalità, ma ancora in divenire, come confermerà l’ascolto dell’esecuzione di lunedì 26. La concentrazione a fare tutto per bene da parte di coro, orchestra e solisti di canto, trattiene un po’ la risposta alle richieste espressive del podio. A fronte di momenti sinceramente splendidi come il bellissimo Et incarnatus, eseguito dai tenori con un colore e impasto timbrici magnifici (replicati anche lunedì) o la precisione dell’attacco da parte dei soprani della fuga Et vitam venturi l’ascolto evidenzia alcuni squilibri che saranno successivamente corretti. La coppia solistica femminile — Camilla Tilling e Gerhild Romberger — col senno di poi sembra cantare più per i microfoni radiofonici posti di fronte a loro che per la sala, con sfumature di colore e fraseggi sinceramente suggestivi, ma non sempre udibili dal fondo della sala. Il tenore Peter Sonn e il baritono Hanno Müller-Brachmann invece non si pongono il problema, anche perché né l’uno né l’altro hanno voci adatte allo scopo. Peter Sonn è il classico tenore di scuola tedesca dalla voce chiara e un po’ adenoidea, capace di cantare o forte (in voce) o piano (in quasi falsetto), ma senza vie di mezzo. All’attacco del Kyrie, invece di un crescendo, complice la tensione, la voce erompe con uno sgradevole colpo di glottide, mentre il nodale intervento Et homo factus est “rovina” per mancanza di sfumature il clima creato prima dai tenori del coro e poi dal quartetto solistico nel suo complesso nel già citato Et incarnatus. Müller-Brachmann è invece un baritono dalla voce troppo chiara per la parte e, soprattutto nell’attacco dell’Agnus Dei, è costretto a spingere il proprio organo vocale al limite, evidenziando un indurimento della voce e una perdita di rotondità timbrica poco gradevoli.
Veniamo al Sanctus e, quindi, al famosissimo Benedictus, caratterizzato da quell’intervento del violino solista che alcuni vorrebbero tra i più belli del repertorio. Sinceramente non sono completamente d’accordo. Certo il momento musicale, nel suo complesso, è tra i più alti della storia della musica, ma il “solo” come tale in fondo non è altro che una sorta di filo dorato che lega insieme soli, coro e orchestra, a tratti poco significativo se non in relazione con quanto espresso dal resto dei partecipanti. La stessa scrittura beethoveniana, non sempre interessata a considerare i rapporti tra l’emissione dello strumento nei vari registri rispetto alle forze messe in gioco attorno al solista, porta in svariate occasioni a rendere difficoltoso il “bucare” la tessitura senza rischiare di rompere il suono dello strumento. Francesco Manara, uno dei violini di spalla dell’orchestra, è ben noto agli appassionati per la bellezza del suo suono e la precisione dell’intonazione e, nella serata di venerdì 23, era come sempre attento, elegante e raffinato nelle sfumature di colore, ma a tratti risultava coperto dagli interventi del coro e dell’orchestra alle sue spalle. Haitink, dal canto suo, guidava orchestra e coro con la saggezza dell’esperienza, e quando il coro o l’orchestra sembravano un po’ restii a seguirlo si adattava al compromesso come, ad esempio, allo stacco del fugato In Gloria: in esso i bassi del coro si dimostravano meno agili rispetto all’orchestra nel seguire il tempo voluto dal direttore. In questo modo però, le inequivocabili lungaggini beethoveniane nelle fughe (Gloria e Credo) e nell’Agnus Dei finale non riescono a trovare la propria sintesi interpretativa e il lavorio compositivo di Beethoven resta in eccessiva evidenza.
Lunedì 26 la terza esecuzione mostra sin dalle prime battute un evidente cambio di “marcia”. Prendersi dei rischi musicali significa correre dei rischi dal punto di vista della tenuta tecnica dell’insieme, ma il gioco, come si dice, vale la candela. Certo, qualche accordo orchestrale non è più perfettamente a piombo, verso la fine del Kyrie i legni hanno un breve momento di panico, e il tenore anticipa di mezza battuta il proprio ingresso: eppure tutto ciò non può bastare a sancire il naufragio di un’esecuzione che cerca, riuscendoci, di volare alto. La Romberger e la Tilling rompono gli indugi e cantano con ben differente proiezione, e poco importano eventuali cedimenti di intonazione o difficoltà di controllo sulle sortite nel registro più acuto (salire senza un solido appoggio sul diaframma e quindi sul fiato è sempre rischioso) quando la partecipazione emotiva è così sincera. La differente “temperatura” musicale della serata si sente anche nella prestazione solistica di Manara, che si prende qualche bella libertà espressiva e spinge maggiormente sul suono del proprio magnifico strumento. Ma il vero dominatore della serata è il coro scaligero, ben stimolato da Haitink, che spadroneggia senza più alcuna timidezza. La forcella dinamica, già notevole la prima serata, qui diventa a tratti ancora più impressionante: in certi momenti sembra addirittura che non ci sia limite a quanta pressione sonora possa sviluppare questo coro senza mai perdere in coesione timbrica e precisione d’esecuzione. Le piccole remore della prima serata sono abbandonate, i tempi scorrono con molta più coesione e la tensione musicale imposta da Haitink (alla fine sinceramente provato) non cede mai, e la sua visione della Missa Solemnis (come fissata nella registrazione live BRK del 2012), drammaticamente teatrale, ma sempre strutturalmente inappuntabile, rifulge nel suo splendore sonoro nelle orecchie degli spettatori. Certo, tra le prospettive interpretative questa di Haitink è forse tra le più difficili da realizzare, appoggiandosi solo sulle ragioni musicali di una partitura che perfetta sinceramente non si può definire. Ma in quelle serate in cui Apollo e Dioniso smettono di litigare tra loro e decidono di volgere uno sguardo benevolo sugli esecutori, ecco che il successo può arridere a una serata di grande musica e, quindi di grande gioia.
Riccardo Cassani