MAHLER Sinfonia n. 2 in do minore “Resurrezione” contralto Christianne Stotijn soprano Miah Persson Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Daniele Gatti
Con l’esecuzione della Sinfonia n. 2 “Resurrezione” di Gustav Mahler si è aperta la stagione sinfonica dell’Orchestra della Scala diretta da Daniele Gatti, con la partecipazione del Coro scaligero, del soprano svedese Miah Persson e del contralto olandese Christianne Stotijn. Il concerto ha segnato anche l’inizio di un’integrale delle sinfonie mahleriane che proseguirà in febbraio con la n. 3 (diretta da Riccardo Chailly) e in giugno con la n. 9 (Herbert Blomstedt).
Di tutti i motivi alla base di un arco temporale compositivo insolitamente lungo (1888-1894) — lutti in famiglia, intensificazione dell’attività direttoriale, composizione del secondo e terzo quaderno dei Lieder und Gesange aus der Jugendzeit su testi provenienti dal Knaben Wunderhorn, completamento della partitura dell’opera comica Drei Pintos lasciata incompiuta da Weber — quelli decisivi sembrano essere stati di natura squisitamente musicale, se non poetici: il giudizio negativo di Hans von Bülow sul primo tempo — con il titolo, poi cassato, di Totenfeier — dopo averglielo eseguito al pianoforte nel 1891, il dubbio sulla disposizione dell’Andante dello Scherzo che, insieme al quarto tempo marcato “Sehr feierlich aber schlicht”, nel quale il contralto intona il breve Lied “Urlicht” (Des Knaben Wunderhorn), formano i tre movimenti centrali e il Finale, il più arduo di tutti da sciogliere.
Paradossalmente, è stato lo stesso von Bülow a venirgli in soccorso, sia pure da… morto. Così Mahler ne rievocherà le circostanze, legate alla partecipazione al suo funerale nel 1894: «In quel momento il coro accompagnato dall’organo intonò il corale su testo di Klopstock “Auferstehen”. Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima!». In realtà, come chiarisce lui stesso, il corale non ha fatto altro che accendere «lo spirito del lavoro che portavo dentro di me». Ma tutta l’esperienza artistica di Mahler è fondata su questo legame, esistenziale e creativo insieme: «soltanto se vivo un’esperienza compongo, soltanto se compongo vivo».
Più che nella Sinfonia n. 1 e in misura crescente in molte di quelle successive, nella n. 2 coesistono marce militari e melodie popolari, valzer e musica di strada, clangori orchestrali e temi struggenti; un coacervo a lungo criticato di idee per il cui trattamento Mahler spesso ricorre a strutture formali proprie della tradizione (nella Seconda la forma-sonata) e nello stesso tempo ne esaspera i toni, che qui vanno dallo spettrale al divino, dalla morte alla resurrezione, dalle «trombe dell’Apocalisse» alla «luce meravigliosa e dolce che ci compenetra fino al cuore» (così Mahler nel programma edito per un’esecuzione a Dresda nel 1901).
L’esecuzione di un “programma” di questo tipo — programma nel senso mahleriano di esperienza interiore tradotta in musica e non pretesto per un descrittivismo musicale alla Richard Strauss (da Mahler per altro tenuto in grande considerazione) — richiede risorse artistiche in grado di sottolineare con misura (Secondo movimento) ma anche con enfasi (seconda parte del Quinto tempo), con raffinatezze timbriche (Terzo movimento) ma anche con sonorità evocative (prima parte con il Coro e voci del Quinto tempo), una partitura di rara difficoltà: strumentale e vocale insieme, ma soprattutto perché costruita attorno a una tensione esecutiva che non conosce allentamenti.
Daniele Gatti ha qui dato un’ennesima prova della sua sintonia con Mahler, portando a termine un’esecuzione che si colloca a pieno titolo nella scia di quelle ormai storiche di Claudio Abbado, al quale va il merito di avere “introdotto” a suo tempo Mahler in Italia. Il pregio maggiore della sua direzione, Gatti l’ha fatto emergere nella conduzione degli ultimi due tempi, che Mahler dapprima voleva fossero eseguiti senza interruzione, poi ha cambiato idea e ha ritenuto fosse preferibile una pausa. Gatti, che è sembrato protendere per la prima soluzione, li ha diretti magistralmente: la ripresa, e l’ampliamento, da parte di un ensemble di fiati della melodia sulla quale il contralto intona “Urlicht” è apparso di grande suggestione, nel rispetto di quanto Mahler prescrive in partitura (“Fernorchester”). All’ottima resa delle due sezioni in cui si articola il Finale hanno contribuito nella prima il Coro, con una linea vocale tenuta giustamente sottovoce, evocativa, nella seconda l’Orchestra, raramente così precisa e senza timore di risultare “caricata” nelle sezioni degli ottoni e delle percussioni.
Grandi e meritati applausi alla fine, anche alle due soliste.
Ettore Napoli