VERDI Rigoletto M. Giossi, P. Cigna, O. Cosimo, E.G. Iori, M. Minarelli, F. Montorsi; Coro dell’Opera di Parma, Orchestra dei “Cantieri d’arte”, direttore Stefano Giaroli regia, scene e Costumi Artemio Cabassi
Carpi, Teatro Comunale, 16 gennaio 2015
Già in altre occasioni avevo rilevato come le esecuzioni nei teatri di provincia rechino soddisfazioni che spesso invano si cercano nelle più ricche ma meno genuine produzioni dei teatri maggiori. E per “maggiori” non s’intende solo teatri come la Scala, dove gli insuccessi son quasi programmatici, tanto che vien da chiedersi cosa ci vadano a fare i cantanti, sapendo che “non passeranno”: ma anche i cosiddetti Teatri di Tradizione offrono ormai quasi solo prodotti d’agenzia presi belli e impacchettati, con tutte le manchevolezze del caso, i quali si segnalano quasi solo per i troppo elevati costi.
Quando parlo di provincia, intendo proprio realtà marginali come, ad esempio, Busseto (vi abbiamo ascoltato una splendida Traviata un par di mesi or sono) o – e soprattutto (Busseto beneficia del supporto del verdi Festival parmense) – Fidenza, Casalgrande (terra di ceramisti, nel famigerato comprensorio reggiano-modenese) o Carpi, solo per restare nell’area emiliana: tre teatri minimi, che funzionano quasi solo grazie alla passione e agli sforzi organizzativi di associazioni private di appassionati, le pubbliche istituzioni avendo il maggior merito nel non vanificare l’impegno di quei volenterosi, mettendo a disposizione gli spazî necessari (e naturalmente una parte delle risorse) per approfittare di quella sugosa pappa che per essere goduta ha solo da scodellarsi: visti i tempi grami della politica, non son meriti da poco.
Cos’è che si fa apprezzare nelle opere viste in quei teatrini? Soprattutto lo spirito “vero” dell’opera, cui contribuisce in gran parte anche l’atteggiamento del pubblico, che mostra una passione genuina, scevra da intellettualismi e, soprattutto, da quegli atteggiamenti preconcettamente polemici o da sopracciò che spesso si riscontrano nei pubblici dell’opera e va a teatro specialmente per divertirsi. Questa partecipazione popolare, anche popolana, se si vuole, ma entusiasta, crea il clima giusto, così che i cantanti e gli artisti tutti si sentono tranquilli ed eccitati a dar fondo a tutte le risorse di cui dispongono. E – non è certo una sorpresa – val meglio un bravo professionista desideroso di mostrare le proprie buone qualità, o un giovane anche alle prime armi voglioso di mettersi in mostra, che un fuoriclasse messo alle corde dall’ostilità d’un pubblico coi fucili spianati o (come non di rado anche càpita) svogliato, presente solo per spocchiosa esibizione di fama.
Al fatto, lo scorso 16 gennaio, l’incantevole Teatro Comunale di Carpi ha ospitato un Rigoletto che è tra i belli cui mi sia capitato di assistere: anche perché la compagnia di canto era di quelle degne di anche più blasonati palcoscenici. Nell’impianto scenografico di bell’impatto visivo, coi costumi sempre fantasiosi e la regia cordiale (anche se forse un po’ più banale, a tratti, di altre che abbiamo apprezzato in passato di Artemio Cabassi), si sono trovati ad agire due maestri rari del fraseggio come Marzio Giossi e Paola Cigna e due vecchie volpi del palcoscenico col pelo però ancora ben lucido come il cavernoso Enrico Iori (Sparafucile dalla testa ai piedi, con un contro-fa tonante) o la spiritata maestra del Brettl-Lied Monica Minarelli. Ad essi si aggiungevano il promettente tenore Oreste Cosimo, segnalatosi al recente Concorso di Busseto col secondo premio (non attribuito il primo), che era indisposto ed ha quindi cantato un po’ col freno a mano tirato e un’attenzione per gli aspetti tecnici del canto che ne hanno un poco mortificato la fantasia di fraseggio: in attesa di poterlo riascoltare nella pienezza dei suoi cenci, ne abbiamo comunque potuto apprezzare il bel timbro e l’intelligenza d’interprete. Infine, l’inossidabile Monterone di Franco Montorsi, che all’autorevolezza scenica maturata dalla lunga esperienza unisce una immarcescibile freschezza vocale, stupefacente in un artista con oltre cinquant’anni di carriera alle spalle.
Detto che la direzione di Stefano Giaroli, elastica come vorremmo sempre che fosse una concertazione d’opera, non sbagliava lo stacco d’un tempo o l’individuazione del clima d’ogni singolo brano, trasmettendo il piacere di far musica proprio questo appassionato maestro, vorrei ritornare un momento sui due eccellenti protagonisti della serata.
Marzio Giossi scolpisce la parola scenica tanto cara a Verdi con la maestria del cesellatore e, insieme, la forza d’un retore d’alta scuola. Il carattere perturbato di Rigoletto – che rimpalla dalla manìa di persecuzione alla rabbia della rivalsa sociale, e maniacalizza l’amore paterno – si definisce giocando sui toni del grigio, che la varietà degli accenti del baritono rende ricca di sfumature, quanto di tinte sonore. E quando il cantante sale agli acuti estremi, sa rendere significante in senso drammatico anche quelle prodezze, in sé e per sé, magari, qualche volta effettistiche: il sol acuto interpolato a “dei figli difende l’onor”, ad esempio, spesso un bercio buono solo a romper il flusso musicale, vien da Giossi proiettato in alto schiarendo la voce in uno squillo limpido che dà a quella nota senso di verità drammatica. Ma il momento supremo di Giossi è al finale, quando accompagna la morte di Gilda con un canto franto e quasi inespressivo, nella dolcezza finalmente raggiunta anche dal timbro di Rigoletto, per poi sfogare l’orrore per la “maledizione” in una vera e propria folgore.
Paola Cigna è uno dei pochi soprani che potessero reggere il confronto: anch’essa costruisce il suo canto sulla parola, trovando nella frase verdiana nuove articolazioni d’espressione (si coglie l’esperienza della cantante nel repertorio moderno e contemporaneo), sì che si scoprono in Gilda tratti nuovi. La Cigna, infatti, quasi ad ogni frase ci scuote con sorprese di accento, di legatura di frase, di dinamica fuori dalla tradizione, e non solo delle temibili Gilde-coccodè che càpita di ascoltare. Il soprano conduce l’ignara fanciulla Gilda, nella sua tragica maturazione attraverso lo stupro e la risoluzione al sacrificio d’amore, a farsi vera donna, un personaggio di carne e d’ossa come raramente ci era successo di ascoltare. Bisogna riandare a interpreti del calibro di Anna Moffo o Maria Callas – quest’ultima scontando però, col timbro troppo severo per Gilda, una matronalità poco consona a un bocciolo sradicato dal gambo prima di esser finito di sbocciare – per trovare un’altra caratterizzazione così intensamente profonda del personaggio verdiano.
Sarà che i piccoli teatri predispongono all’umore giusto, ma le ultime volte che avevo ascoltato il Rigoletto non mi ero divertito così tanto.
Bernardo Pieri