PUCCINI Tosca O. Dyka, S. La Colla, R. Frontali, W. Corrò, D. Colaianni, M. Pacifici; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Donato Renzetti regia Alessandro Talevi scene e costumi Adolf Hohenstein
Roma, Teatro dell’Opera, 3 marzo 2015
Nessuna opera è legata ad una città ed al suo massimo palcoscenico lirico come la Tosca di Puccini è legata a Roma e al suo Teatro Costanzi, poi Reale, poi dell’Opera. E nessun melodramma nella capitale ha annoverato voci e direttori quali per Tosca son stati chiamati: a dirne una per tutte, l’incredibile trio Claudia Muzio, Giacomo Lauri Volpi, Riccardo Stracciari con la bacchetta di Gino Marinuzzi. Tosca non ha mai lasciato il suo palcoscenico, anzi vi torna a distanze brevissime e in epoca recente con un po’ di confusione, quanto a inseguirsi e sovrapporsi, talora, di regie e allestimenti nuovi e vecchi, nonché di cantanti e direttori spesso neppur lontanamente paragonabili a quel trio. Di modo che l’ultima Tosca veramente importante a Piazza Gigli è stata, a ben vedere, quella del centenario, con la splendida Ines Salazar, Pavarotti, Pons, Domingo sul podio e la regia di Zeffirelli. L’attuale ripresa voleva soprattutto proporre lo storico allestimento di Adolf Hohenstein nella ricostruzione di Carlo Savi e di Anna Biagiotti per i costumi. Ricostruzione che evocava ciò che gli spettatori del Costanzi avevano potuto vedere alla prima assoluta dell’opera e non la ripresa di Ettore Rondelli nel 1964, per la regia di Mauro Bolognini e i costumi di Anna Anni, in un liberty memorabile e infedele. Ora son state ridate alle scene le proporzioni corrispondenti al palcoscenico del Costanzi prima del suo rifacimento e ai costumi lo stile da stampa o acquarello romano dell’Ottocento (Pinelli e Roesler Franz in primis) voluti da Hohenstein. Con un effetto complessivo di grande ricchezza cromatica e di maggiore intimità spaziale, salvo beninteso il quadro finale, con una prospettiva “da Castello” su San Pietro e Borgo di eccezionale suggestione. In tutto ciò forse anche la gestualità dei cantanti avrebbe potuto essere “ricostruita”, sì da ridar vita al grand style (all’epoca Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse facevano testo) delle “bellissime del melodramma verista” e dei loro partners. O per scelta o per forza, così non è stato. Oksana Dyka, ad un timbro anonimo e sovente aspro, ad un canto piatto e scontato (sì, che acuti e che Do della lama, certo…), univa una recitazione inerte e fissa, talora infantile in una sorta d’opima banalità. Meglio il Cavaradossi di Stefano La Colla (a sostituire il previsto Yonghoon Lee, malato), per una voce senz’altro bella e grande (l’intonazione a volte imperfetta), per una resa del personaggio non raffinata, ma credibile nella sua assoluta fisicità. Roberto Frontali dava a Scarpia mezzi ancora ragguardevoli (il registro superiore è saldissimo) e una rapacità assai calzante, anche se a tratti inutilmente forzata. Governava il tutto Donato Renzetti, lui diremmo inteso a far sua la passionalità accesa e travolgente per cui il direttore della prima assoluta, Leopoldo Mugnone, andava celebre. Raramente infatti abbiamo sentito il maestro abruzzese spingere a tal segno la temperatura orchestrale, emozionare ed emozionarsi mantenendo sempre un suono denso e vellutato e una tavolozza di colori così varia e ricca. Meno evidente il lavoro sui cantanti, ivi inclusi i comprimari, apparsi un po’ lasciati a se stessi. Non doveva mancare d’interesse il secondott cast, con Raffaella Angeletti, Aquiles Machado e Claudio Sgura.
Maurizio Modugno