BRITTEN Billy Budd P. Addis, A. Oke, G. Broadbent, C. Robertson, M. Kim. S. Lin, J. P. Huckle, A. Fantoni; Coro e Coro di voci bianche del Teatro Carlo Felice, Coro del Teatro Nacional de São Carlos di Lisbona; Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Andrea Battistoni regìa e costumi Davide Livermore scene Tiziano Santi
Genova, Teatro Carlo Felice, 17 aprile 2015.
All’interno di un cartellone che nelle ultime stagioni si è concentrato soprattutto su titoli di facile presa, il Carlo Felice non ha voluto rinunciare alla sua vocazione britteniana (nel corso degli ultimi decenni ha messo in scena quasi tutti i capolavori del grande compositore inglese) riproponendo a dieci anni di distanza Billy Budd; stavolta non nella prima versione in quattro atti, ma in quella definitiva del 1960, riprendendo il notevole spettacolo ideato nel 2004 da Davide Livermore per il Regio di Torino. È un giusto tributo a un’opera che va senz’altro annoverata tra i grandi capolavori del Novecento, una partitura compatta e ricchissima, che avvince e incalza interrogando lo spettatore su temi profondi, molti dei quali squisitamente “britteniani”: l’alterità e l’innocenza che soccombono al destino, l’impossibilità di essere di Guida per gli altri, la violenza e la solitudine a cui soggiace un simbolico equipaggio lontano da Casa, “perduto per sempre nell’oceano sconfinato”… Billy Budd narra la storia di un totale fallimento, simbolizzato dall’inseguimento a vuoto della nave francese: il fallimento del Capitano Vere, che conosce gli uomini, ne penetra la natura, ma non riesce o non vuole opporsi al destino; quello di Billy, che non sa difendere la sua innocenza in “questo mondo splendido e rude”; quello di Claggart, che finisce vittima della sua stessa macchinazione. Un fallimento globale a cui si contrappone soltanto un raggio di luce intravisto indipendentemente sia dal Capitano che da Budd, quella “vela nella tempesta” (“a sail in the storm”) simbolo di salvezza; e soprattutto l’infinita bellezza ed empatia che trasuda da tante pagine dell’opera, come la splendida elegia del sassofono che accompagna le sofferenze e l’umiliazione del Novizio, o il canto dei violoncelli che introduce al sogno premonitore di Billy, di sprofondare in fondo al mare.
Tale ricchezza tematica viene ben assecondata e illuminata dalla soluzione scenica pensata da Davide Livermore e Tiziano Santi, che optano per una scena spoglia, ma costantemente animata dai palcoscenici mobili, che fanno apparire e sparire i ponti e le cabine, e le masse e i personaggi che le abitano, con momenti di grande impatto (vedi l’emersione del coro subito dopo il prologo, o il suo svelamento improvviso nella scena terza, prima della canzone “We’re off to Samoa”); e soprattutto creando un movimento continuo che sa suggerire l’idea della navigazione marina e il senso di smarrimento che l’accompagna, mentre un uso sapiente delle luci riesce sempre a isolare i drammi interiori dei protagonisti e i momenti focali dell’opera.
La scelta di Andrea Battistoni come guida di quella nave alla lucida deriva che è Billy Budd poteva suscitare a priori qualche perplessità. Invece il giovane direttore veronese è riuscito a dare una sua impronta alla partitura britteniana, esaltandone ovviamente i momenti più accesi ed esuberanti, come la canzone marinara del primo atto o la scena del tentato assalto alla nave; ma ha soprattutto saputo accordarsi alla particolare “tinta” dell’opera britteniana, sin da quella simbolica ambiguità tra Si bemolle e Si minore che permea il Prologo, dimostrando poi di ben comprendere le potenzialità espressive ed evocative di quella che è forse la pagina più straordinaria dell’opera, la fenomenale sequenza di trentaquattro accordi che “sostituisce” il dialogo, lasciato all’immaginazione dello spettatore, tra Vere e Billy, quando il primo deve comunicare la sentenza di morte al secondo.
Il cast dell’edizione 2005 poteva contare su una triade fenomenale (Croft/Brubaker/Ramey), oggettivamente difficile da eguagliare. Ma gli interpreti di questo allestimento non hanno lasciato molto spazio alle nostalgie, offrendo ritratti efficaci e intensi dei protagonisti. Phillip Addis è un Billy scenicamente assai credibile, ingenuo e generoso, vocalmente robusto ed eloquente, capace di conferire un efficace tono di folksong anche al grande monologo del secondo atto; Alan Oke con una voce tenorile sonora ma un po’ monocolore, percorsa da un’intima fragilità, rispecchia l’indecisione e l’inadeguatezza del Capitano Vere; Graeme Broadbent impersona un Claggart quasi disumano: poliziesco, calvo, sinistro, che vive la sua attrazione per “Beauty” (è il maestro d’armi a coniare il significativo nomignolo che rimane poi appiccicato addosso a Billy) come un tormento autentico. Il canto sulle note più gravi non è sempre perfettamente intonato e suona un po’ forzato in quelle acute, ma l’interprete è davvero notevole, ad esempio nel confronto col Comandante, in cui il fraseggio un po’ abbaiante, culminante nel vero muggito con cui esala le parole-chiave “Mutiny” e “William Budd”, enucleano chiaramente il carattere bestiale, demoniaco di Claggart. Tra gli altri interpreti vanno segnalati i tre ufficiali (Christopher Robertson, Mansoo Kim e Simon Lim), il Red Whiskers di Marcello Nardis e l’espressivo Novizio di Alessandro Fantoni; straordinario poi quel vero protagonista dell’opera che è il Coro, qui rafforzato (come già nel 2005) dal complesso del Teatro San Carlo di Lisbona, diretto del resto da una vecchia conoscenza genovese, Giovanni Andreoli.
Roberto Brusotti
© Marcello Orselli