MEYERBEER Les Huguenots L. Oropesa, Y. Kang, E. Jaho, K. Deshayes, N. Testé, P. Gay, F. Sempey, C. Dubois, E. Hache, J. Robard-Gendre, F. Rougier, M. Partyka, P. Bolleire, T. Lavoie, P. Do, O. Ayault; Orchestre et Choeurs de l’Opéra national de Paris, direttore Michele Mariotti regia Andreas Kriegenburg scene Harald B. Thor costumi Tanja Hofmann luci Andreas Grüter
Parigi, Opéra Bastille, 13 ottobre 2018
“Un’opera pletorica, sovrabbondante, sanguigna, dove spesso si corrono incontro il sublime e il ridicolo, la grande trovata e lo scaltro espediente”. Questa magistrale sintesi è di Rodolfo Celletti, che a suo tempo colse con folgorante concisione pregi e difetti del capolavoro di Meyerbeer. Ancora oggi sulla figura di Meyerbeer pesa il giudizio negativo di alcuni musicisti suoi contemporanei, primo fra tutti Wagner, che dopo esserne stato un ammiratore, ne divenne in seguito un acerrimo denigratore. L’accusa era di scrivere essenzialmente musica, come si direbbe oggi, “commerciale”, priva cioè di vero spessore artistico, unicamente finalizzata a suscitare emozioni forti in un pubblico non particolarmente evoluto. Il voltafaccia di Wagner è troppo sospetto per poter essere ascritto esclusivamente a mutate convinzioni artistiche; della sua attendibilità è dunque lecito dubitare. Ciò nonostante, la polemica wagneriana ha condizionato intere schiere di critici e di musicologi, che hanno frettolosamente liquidato Meyerbeer come nulla più che un diabolico mestierante e non si sono invece avveduti della sua capitale influenza sull’evoluzione dell’opera lirica ottocentesca.
Nel cogliere le tendenze di una società che si stava sempre più europeizzando, Meyerbeer adottò uno stile musicale composito, nel quale si fondevano le peculiarità di tre scuole operistiche: l’italiana, che privilegiava la vena melodica e la vocalità; la francese, sensibile ai valori più schiettamente teatrali; la tedesca, che attribuiva il primato all’armonia e alla scienza dell’orchestra. Sotto quest’ultimo profilo Meyerbeer fu uno sperimentatore ed un innovatore, soprattutto per quanto concerne l’originalità degli impasti timbrici e l’utilizzo di strumenti inusuali. La rivoluzione del grand-opéra non fu solo musicale, ma toccò anche altri aspetti: accentuazione della spettacolarità degli allestimenti scenici; multiformità di stili e di registri; perdita d’importanza della qualità letteraria del testo. Anche i soggetti trattati nelle opere cambiarono: la Storia e le masse assursero al ruolo di protagoniste e le vicende individuali si integrarono con quelle collettive, ciò che segnò un deciso mutamento di prospettiva rispetto alla tragédie lyrique, dove la Storia era assente o comunque restava sullo sfondo.
Les Huguenots vide la luce nel 1836 all’Opéra di Parigi (Salle Le Peletier); nei cent’anni che seguirono, totalizzò ben 1.118 rappresentazioni, concentrate principalmente nel corso dell’Ottocento. In seguito le produzioni si fecero via via più rare fino a giungere all’oblio pressoché totale. In anni recenti, tuttavia, si deve registrare una, sia pur timida, “Meyerbeer renaissance”: Les Huguenots sono stati allestiti a Bruxelles (2011) Strasburgo (2012) e alla Deutsche Oper di Berlino (2016). Alla Deutsche Oper si sono visti anche Vasco da Gama (titolo originario dell’Africaine – 2015) e Le Prophète (2017). Quest’ultimo è stato proposto, nello stesso anno, anche a Essen e a Tolosa (2017). La riproposizione degli Huguenots a Parigi, là dove essi videro la luce, a 82 anni di distanza dall’ultima rappresentazione in loco, rappresenta pertanto un evento di grande rilievo.
Purtroppo la strada che ha preceduto l’andata in scena ha fatto registrare alcuni incidenti di percorso. A quanto pare Peter Konwitschny, originariamente ingaggiato per la regia, intendeva operare tagli e spostamenti giudicati inaccettabili, ragione per cui si è deciso di affidare la produzione al più rassicurante (e prevedibile) Andreas Kriegenburg (a proposito: chi fosse curioso di conoscere la visione di Konwitschny può sempre recarsi a Dresda a fine giugno 2019, dove alla Semperoper è in programma una sua nuova produzione degli Huguenots). Inoltre, un mese e mezzo prima del debutto, Diana Damrau ha deciso di ritirarsi; per rimpiazzarla nel ruolo di Marguerite de Valois è stata reclutata Lisette Oropesa (e forse nel cambio ci si è guadagnato). Nelle more della prima, infine, ha dato forfait anche il tenore Brian Hymel; la direzione dell’Opéra non aveva previsto un doppio (!) e si è dovuti quindi ricorrere al tenore coreano Yosep Kang, membro della troupe della Deutsche Oper, che aveva cantato come doppio di Juan Diego Florez in occasione degli Huguenots berlinesi del 2016.
L’azione, come noto, si ispira piuttosto liberamente alla Chronique du règne de Charles IX di Prosper Mérimée, pubblicata nel 1829. Contrariamente a Mérimée, Scribe si disinteressa della fedeltà storica, per privilegiare le situazioni forti e gli effetti drammatici. Sono presenti solo due personaggi storici: Maurevert (l’attentatore dell’ammiraglio Coligny, leader della fazione protestante), ridotto a mero comprimario, e Marguerite de Valois, la cui natura esce completamente stravolta dalla penna di Scribe. Ad onta di un intrigo a tratti farraginoso e inverosimile, il conflitto religioso – vero e proprio cuore dell’opera – viene evocato e descritto dalla musica con un vigore ed un’intensità drammatica rimarchevoli. L’acme viene raggiunto nel quarto atto con la scena della benedizione dei pugnali, nella quale il fanatismo religioso si manifesta con accenti impressionanti.
La constatazione che la Storia è condannata a ripetersi ha indotto Andreas Kriegenburg a ricollocare la strage di San Bartolomeo in un futuro relativamente prossimo (il 2063 per la precisione), come a rimarcare che ogni epoca è un presagio funesto dei tempi che verranno. L’impianto scenico ha ricordato a molti – non senza ragione – un’enorme scaffalatura Ikea, bianca e lineare, disposta su tre piani, con sei riquadri per piano. In alcune scene questa impalcatura scivola di lato per fare spazio agli esterni (i giardini del castello di Chenonceaux o il Pré aux Clercs, tutti rigorosamente astratti). In questo spazio estremamente stilizzato, Kriegenburg regola una direzione degli attori non particolarmente fantasiosa, con qualche frammento francamente risibile (per esempio: la schermaglia del terzo atto tra ugonotti e cattolici). Messa in scena innocua, in definitiva, che lascia il dubbio (come lo lasciava l’allestimento del Don Carlos parigino dell’anno scorso) se per operazioni di siffatto rilievo musicale non sia più adatta una regia di taglio tradizionale.
Alla guida dei complessi dell’Opéra in grande spolvero (in particolare il coro), Michele Mariotti conferma la sua affinità con questo repertorio. Elegante e leggero nei primi due atti, a partire dal terzo impone un passo più aspro, contrastato, incisivo, in linea con l’evoluzione del dramma. Una concertazione simile, insomma, a quella proposta in occasione delle recite berlinesi del 2016 (si veda la recensione sul n. 282 di MUSICA), che però in quella circostanza ben si sposava con la messa in scena, volutamente disomogenea, di David Alden. A Parigi il progetto registico astratto e essenziale di Kriegenburg non genera un cocktail ugualmente interessante. A credito di Mariotti va ascritta la consueta attenzione ai valori timbrici della partitura (ciò che, tra l’altro, valse agli Huguenots l’ammirazione di Berlioz); a debito, invece, l’avallo di una serie di micro-tagli (oltre all’eliminazione integrale del balletto) difficili da condividere.
Pur dovendo ringraziare Yosep Kang per aver salvato la produzione, non si può non rilevare la sua inadeguatezza. Come si è già evidenziato in altra occasione, il tenore che affronta il ruolo di Raoul deve confrontarsi con una tessitura impervia, scritta ad hoc per la tecnica di fonazione del primo interprete Adolphe Nourrit, che nel salire verso gli acuti faceva gradatamente prevalere la dolcezza della voce di testa sulle sonorità metalliche della voce di petto. Il celebre falsettone, insomma, di cui però si sono perse le tracce: oggi nessuno canta più così. Perciò per essere Raoul non basta un registro centrale gradevole: servono gli acuti; e Kang non li ha. Ogni benché minima impennata della linea di canto lo mette in patente difficoltà, anche d’intonazione. Per tacere del francese approssimativo, del fraseggio monocorde e della recitazione scialba. Lisette Oropesa risolve con spettacolare virtuosismo vocale, ma anche con sensazionale aisance scenica, il ruolo di Marguerite de Valois. A Ermonela Jaho mancano le note gravi di un ruolo concepito per la voce poderosa della mitica Cornélie Falcon; purtuttavia, in forza del consueto investimento interpretativo e di un registro acuto solido e penetrante, si rivela una Valentine credibile. Karine Deshayes, pur con qualche marginale forzatura, è un Urbain ideale. La tessitura grave di Marcel mette a tratti in difficoltà Nicolas Testé, che compensa con un canto morbido e sorvegliato; forse fin troppo: l’incarnazione di questo singolare personaggio, che tanto piacque a George Sand, si rivela nel complesso un po’ pallida. Florian Sempey canta molto bene, ma non convince fino in fondo questo Nevers farfallone. Paul Gay è meno probante sul piano vocale, ma più credibile sotto il profilo scenico nel dipingere l’integralista Saint-Bris. Eccellente, infine, la pletorica pattuglia dei comprimari, nella quale svetta il Tavannes di gran lusso di Cyrille Dubois.
Paolo di Felice
Crediti: Agathe Poupeney / OnP