BELLINI I puritani R. Iniesta, A. Siragusa, M. Cassi, A. Birkus, N. Kato, A. Binetti, G. Pelizon; Coro e Orchestra della Fondazione Teatro Lirico G. Verdi, direttore Fabrizio Maria Carminati regia Katia Ricciarelli, Davide Garattini Raimondi scene e luci Paolo Vitale costumi Giada Masi
Trieste, Teatro Verdi, 16 novembre 2018
Lo spettatore qualunque che andasse ad assistere oggi ai Puritani, avendo in mente un’edizione qualunque di qualche decennio fa, avrebbe probabilmente l’impressione di ascoltare un’opera nuova. Non tanto per la vocalità, dove i “rossiniani” hanno occupato il territorio, quanto per l’apertura di molteplici (nemmeno troppo piccoli) tagli adottati da una secolare convenzione; il che mette in luce sempre di più il carattere di cantiere aperto, di un’opera assolutamente sperimentale del primo Romanticismo italiano. Questa la sensazione provata dal pubblico triestino di fronte all’edizione che ha aperto – si può ben dire trionfalmente – la stagione lirica. Il progetto era nato da un’emergenza e dalla favorevole congiuntura di una duplice e più che idonea compagnia da affidare alle cure di Fabrizio Maria Carminati, di fatto direttore “principale” dopo aver chiuso con gran successo anche la stagione sinfonica. Carminati ha avviato il cantiere belliniano ripristinando recitativi e raccordi che influiscono sullo sviluppo formale e sulle dinamiche strumentali portate in netto rilievo; sicché l’orchestra e tutta la concertazione appaiono sollecitate da una nervatura serrata (anche con qualche rischio nel primo atto) che nulla concede a enfasi e allentamenti di maniera. Ne risulta un continuum inquieto che sembra mirare a due approdi felicemente raggiunti: il largo sostenuto di Elvira “Ah vieni al tempio” e ovviamente nella grande scena “Qui la voce sua soave”. Si avverte nel progetto un appassionato impegno di squadra, in cui la messinscena iconograficamente tradizionale si mette al servizio dei cantanti con le loro difficoltà vocali estreme. In questa prospettiva si è mosso l’intervento registico, di prestigio, di Katia Ricciarelli. Il luogo è lo spaccato di un maniero, colmato da un’impalcatura difensiva, che offre tutto un gioco di scale e di camminamenti contro un cielo acceso da lampi di temporale o di battaglia. Costumi di plumbea eleganza con il biancore di Elvira e del suo velo, che è insieme “fine” e “mezzo”. Memore dei suoi Puritani alternativi per la Malibran al Petruzzelli e della propria esperienza di artista, la Ricciarelli (con Davide Garattini ed i suoi collaboratori) contribuisce alla compostezza romantica e romanzesca. D’effetto pure il tableau guerresco sullo sfondo del duetto Riccardo /Giorgio.
Cast giovane, come si conviene a operazioni come questa, in una città come questa, con un quasi veterano come Antonino Siragusa. Lo smalto tenorile non sarà quello del protoromantico esule-pellegrino, ma lo squillo da chiarina, la tenuta dei fiati sono di spettacolare sicurezza, dal celebre Largo di sortita al proibitivo e terrificante terzo atto, dove ad insidie di prammatica si aggiungono insidie; ma anche melodiche delizie come il duetto “Da quel dì ch’io ti mirai”.
Ancor più arduo conciliare soavità di canto e d’interpretazione con la vertiginosa, trascendentale tessitura di Elvira. Ci riesce splendidamente un giovane soprano (Ruth Iniesta) che non a caso porta impressa nel cognome l’eco funambolica di un padreterno del calcio spagnolo: la fragranza del canto, la scintillazione belcantistica si liberano del vezzoso cliché virginale e si gettano nell’eccitazione più coinvolta e coinvolgente. Mario Cassi controlla nel complesso suasivamente il canto di Riccardo, esemplare baritonale ottocentesco. E canta bene anche il basso Alexey Birkus, anche se per il ruolo di Giorgio sarebbe desiderabile un maggior “pondo” di voce, se non di anni. Con Andrea Binetti e Giuliano Pelizon (Bruno e Gualtiero) autorevole l’Enrichetta di Nozomi Kato, che offre a Siragusa l’assist per lo slancio molto bello di “Non parlar di lei che adoro”. Illuminanti la compattezza e le qualità individuali dell’orchestra (corno solista giustamente alla ribalta, a fine spettacolo) e l’assorta, ammirevole prova del coro.
Gianni Gori