VERDI Otello J. Kaufmann, A. Harteros, G. Finley, R. Wilson, E. LeRoy Johnson, G. Salas, B. Szabó, M. Silijanov, M. Suihkonen; Chor der Bayerischen Staatsoper, Bayerisches Staatsorchester, direttore Kirill Petrenko regia Amélie Niermeyer scene Christian Schmidt costumi Annelies Vanlaere luci Olaf Winter
Monaco di Baviera, Bayerische Staatsoper, 2 dicembre 2018
Problemi della memoria, depressione, insonnia, tremori, palpitazioni: sono alcuni dei sintomi di disturbi mentali riconducibili all’aver partecipato ad azioni di guerra. L’espressione “il vento degli obici” fu coniata proprio per identificare questo tipo di psicopatologie, nate sui campi di battaglia e nelle trincee della Grande Guerra, che a lungo si credettero – erroneamente – imputabili a presunti danni fisici al cervello, causati dallo spostamento d’aria conseguente alla deflagrazione degli ordigni. In realtà la causa non era organica, bensì psicologica. La malattia non necessariamente colpiva soggetti costituzionalmente vulnerabili; ne erano affette anche persone senza una particolare predisposizione. Essa poteva manifestarsi durante i combattimenti od anche molto tempo dopo. Solo nel 1980 la patologia fu formalmente riconosciuta e scientificamente battezzata con il nome di “disturbo post-traumatico da stress” (PTSD).
Secondo Amélie Niermeyer, regista di questa nuova produzione della Bayerische Staatsoper, Otello soffre di PTSD, effetto delle tante battaglie combattute in prima linea. Il suo “Esultate” non ha nulla di eroico e di trionfale, ma è il biglietto da visita di un uomo psichicamente prostrato dall’ennesima contesa. Poco prima, mentre le voci della tempesta provenivano da un coro immerso nella quasi totale oscurità, nella parte superiore del palcoscenico Desdemona seguiva le evoluzioni della battaglia in preda all’ansia e alla preoccupazione per la sorte di Otello. Nel seguito si capisce che anche Desdemona soffre di una sindrome: quella della Crocerossina, che l’ha spinta ad innamorarsi di un outsider decisamente complicato. Il duetto d’amore è letto nella stessa chiave: i richiami alle imprese belliche perdono la loro connotazione celebrativa e assumono quasi i tratti di una fissazione, che Desdemona-infermiera si incarica di alleviare. La tenerezza e la spossatezza di Otello non fanno dunque parte di un momento di felicità, ma sono il risultato della tensione che si allenta; ed è così che il carattere effimero del “gaudio dell’anima” si impregna di pessimismo. Insomma: l’idea di base è interessante e, fin qui, ben sviluppata. Il problema è che, seguendo quest’impostazione, la regista non sa che fare di Jago. Sopperisce brillantemente Gerald Finley che, come auspicava Boito nella celebre prefazione alle Disposizioni sceniche stilate da Giulio Ricordi, è “gioviale e schietto e quasi bonario; è creduto onesto da tutti tranne che da sua moglie, che lo conosce bene. Se in lui non ci fosse un grande fascino di piacevolezza nella persona e d’apparente onestà, non potrebbe diventare nell’inganno cosi potente come è”. Uno Jago simpatico e giocherellone, insomma, che ordisce la sua trama con un mix di ironia e determinazione, senza, però, che sia chiaro il motivo che anima i suoi misfatti. Ulteriori perplessità destano alcune proiezioni non particolarmente utili e un paio di scene malamente dirette (il terzetto del fazzoletto e il finale). A consuntivo, messa in scena interessante, che alterna spunti pregevoli con qualche passaggio a vuoto.
Inutile rimarcare, tuttavia, che il pubblico convenuto a Monaco era principalmente interessato all’esecuzione musicale. Kirill Petrenko non affronta spesso il repertorio italiano; la sua direzione non ha però deluso le aspettative. Arco dinamico amplissimo, agogica dettagliata, definizione nitidissima del suono sono gli indici di una concertazione all’insegna di uno straordinario virtuosismo strumentale, che funziona anche sul piano teatrale, con alcuni episodi davvero memorabili: la tempesta e il finale su tutti. Questo Otello mentalmente disturbato trova in Jonas Kaufmann un interprete ideale. Kaufmann non si discosta molto dal ritratto offerto in occasione del suo debutto nel ruolo al Covent Garden nell’estate del 2017: il fraseggio è eloquente e sfumato, in linea con i desiderata di Verdi, troppo spesso traditi dalla ben nota prassi esecutiva degli Otelli violenti e stentorei. La differenza rispetto a quelle recite è la concezione del personaggio: mentre a Londra l’accento veniva messo sulla viscida eppure irresistibile azione di convincimento messa in atto da Jago, in questa produzione monacense la progressiva disgregazione psicologica del protagonista trova nella gelosia la classica goccia che fa traboccare il vaso, ma le cause profonde risiedono nelle insanabili cicatrici mentali che la guerra ha solcato nella mente di Otello. Per il resto pregi e difetti del tenore bavarese trovano qui un’ulteriore conferma: i pianissimi velati ed in falsetto sono tecnicamente discutibili (e talvolta sono coperti dall’insolente orchestra di Petrenko); gli acuti, benché robusti, non hanno lo squillo di certi tenori del passato. Ma la domanda (retorica) è: chi può fare meglio oggi? Considerazioni non molto dissimili valgono anche per la Desdemona di Anja Harteros. La vocalità è ancora solida ma non irreprensibile, soprattutto per quanto riguarda i pianissimi ad altra quota. La tragédienne, carismatica come al solito, si cala alla perfezione nel ruolo dell’amante devota e protettiva, sempre tesa a compiacere Otello anche quando lui la tratta male e la umilia pubblicamente, convinta che prima o poi riuscirà a curarlo e a cambiarlo. Particolarmente riuscito il suo quarto atto, dove l’amara disillusione del fallimento si mescola mirabilmente con lo sgomento per la fine imminente. Dello Jago di Gerald Finley in parte si è già detto: il baritono canadese brilla soprattutto per la recitazione e per la varietà degli accenti, ciò che gli consente di essere esattamente come voleva Boito: “spigliato e gioviale con Cassio; con Roderigo, ironico; con Otello apparisce bonario, riguardoso, devotamente sommesso; con Emilia brutale e minaccioso; ossequioso con Desdemona e Ludovico”. A voler essere ingenerosi, si potrebbe forse rilevare che la dizione non è scolpita come richiederebbe l’ineffabile “accento verdiano”: mi sembra però un appunto minore, considerata la prestazione nel suo complesso. Discrete, ma nulla più, le seconde parti; eccellente il coro.
Paolo di Felice
© Wilfried Hösl