VERDI La traviata M. Rebeka, F. Meli, L. Nucci, F. Manzo, C. Isotton, R. Della Sciucca, C. Finucci; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Myung-whun Chung regia Liliana Cavani scene Dante Ferretti costumi Gabriella Pescucci
Milano, Teatro alla Scala, 22 gennaio 2019
Il vero motivo per andare a rivedere quest’ennesima ripresa della Traviata della Cavani, che a me pare ormai invecchiata oltre il livello di guardia (ma davvero lo spettacolo di Tcherniakov non meritava neppure una prova d’appello?), stava essenzialmente nella sfolgorante Violetta di Marina Rebeka: per andare subito al punto, non immagino oggi nessuna sua collega capace di cantare il ruolo in questo modo. Una voce di timbro di per sé non particolarmente seducente, che però diventa affascinante per il dominio assoluto di ogni parametro tecnico: dinamica (ivi comprese messe di voce da manuale), assottigliamenti, acuti sfavillanti, coloratura nitidissima, legato da manuale. E come succede quasi sempre con chi sa cantare così bene (ovvio pensare a Mariella Devia), l’accusa di freddezza o, peggio, di genericità, può cascare inevitabile: ma sarebbe un errore gravissimo, perché quella della Rebeka è una Violetta aristocratica, che però — a partire dal duetto con Germont — sembra sciogliere la sua apparente imperturbabilità in un fraseggio raffinato, intenso, commovente. La purezza della linea del concertato del secondo atto, l’intensità cinerea dell’“Addio del passato” (per fortuna senza il taglio della seconda strofa), la raffinatezza di accentazione di “Parigi, o cara”, sono altrettanti gioielli in una prestazione di altissimo livello, cui ha nuociuto solo non tanto la stanchezza che emergeva da un Mi bemolle non proprio sfavillante (si veniva da una serie di recite a ritmo serrato), ma semmai la scarsa intesa con il podio.
Chung, difatti (festeggiato dall’orchestra per il suo compleanno durante i saluti finali) è il raffinato musicista che ben conosciamo, ma mi sembra sempre più disinteressato ai meri problemi teatrali, e a fronte di due preludi cesellati nota per nota, battuta per battuta, con un’intensità addirittura lancinante, si ascoltavano curiosi scollamenti col coro (“Si ridesti in ciel l’aurora”) e tempi francamente singolari (“Sempre libera”, davvero troppo lento). Sembrava, Chung, concentrarsi solo su alcuni momenti a lui più congeniali, come il duetto Violetta-Germont, in cui l’alternanza di colori e accenti era di grande interesse, innestando poi il pilota automatico in molti altri: sentire da lui l’allargamento di tradizione alle grandi frasi di Violetta nella seconda parte del secondo atto (“Ah, perché venni, incauta”) è davvero una delusione. E alla cattiva tradizione imputiamo anche le scelte testuali, con i tagli della seconda strofa di “Ah, fors’è lui”, del da capo della cabaletta di Alfredo, di quello della stretta del duetto finale e, persino, dell’intera cabaletta di Germont: vero, le attuali condizioni vocali di Nucci forse non permettevano altra decisione, fatto sta che rimane davvero brutto a sentirsi. Il grande baritono emiliano va per i 77 anni, e ormai si salva con carisma ed esperienza: ma onestà vuole si rilevi che “Di Provenza” era aggiustato al di là dell’accettabile.
Infine, il collaudato Alfredo di Francesco Meli, che ritorna ad uno dei ruoli a lui più congeniali: al di là qualche durezza e tensione nella cabaletta, si riproponeva il consueto, felicissimo ritratto, fatto di eloquenza ed eleganza, raffinatezza stilistica e personalità. Ottimi, senza distinzione, tutti i comprimari. Successo calorosissimo, specie per Marina Rebeka: se la Scala non le affida al più presto quella Norma che manca da decenni, e che la stessa cantante vorrebbe proporre a Milano (come afferma nell’intervista pubblicata su MUSICA di febbraio), davvero compie un errore imperdonabile. Dopo le ultime recite di febbraio, questa Traviata torna a marzo con Sonya Yoncheva e un altro “giovanotto” di talento: Plácido Domingo.
Nicola Cattò