PUCCINI Tosca M.J. Siri, D. Torre, C. Álvarez, J. P Huckle, M. Peirone, D. Pieri, R. Crampton; Coro, Coro di voci bianche e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Valerio Galli regia Andrea Cigni scene Dario Gessati costumi Lorenzo Cutùli
Genova, Teatro Carlo Felice, 12 maggio 2019
Tosca è una perfetta macchina teatrale, un’infallibile erogatrice di emozioni: in fondo è sufficiente che non ci siano fattori che ne frenino o disturbino il funzionamento per condurre un allestimento al successo. Se ne è avuta la controprova in questo spettacolo genovese, del quale sarebbe difficile additare un singolo elemento di eccellenza assoluta ma dove, parimenti, ognuno ha dato un contributo positivo al risultato globale. Quello che stuzzicava maggiormente la curiosità era in certo senso il più estemporaneo, cioè la presenza di Carlos Álvarez, che ha interpretato il ruolo di Scarpia solo per l’ultima recita in programma (alla Prima lo aveva ricoperto Alberto Gazale): avevo infatti assistito cinque anni or sono (riferendone ai lettori di Musica sulle pagine online) al debutto nel ruolo del baritono malagueño, sempre al Carlo Felice, e mi aveva convinto nel secondo atto, ma nel primo mi era sembrato prudente e ancora alla ricerca di un vero approfondimento del personaggio. Álvarez ha avuto nel frattempo modo di maturarlo, e a quanto visto si è trovato benissimo nel clima marcatamente «poliziesco» creato da Andrea Cigni: fin dal suo ingresso in scena è apparso pienamente compreso nel ruolo di uno Scarpia attento investigatore, che studia e fiuta ogni traccia sulla «scena del crimine» in Sant’Andrea della Valle, creando un’atmosfera di minacciosa aspettativa; nell’interazione con Tosca la sua vocalità compatta e controllata crea un personaggio sinistro ma sempre elegante. Le lunghe scene condivise con María José Siri sono risultate in effetti i momenti più intensi dell’allestimento, anche se il baritono cinquantaduenne ha purtroppo inficiato la sua prova nel secondo atto scordando stranamente qua e là alcune battute, in maniera particolarmente pesante subito prima di «Vissi d’arte».
Il soprano uruguaiano ha colpito come sempre per l’imponenza dei mezzi, per il carisma scenico e per la passionalità che trasmette a Floria Tosca. La voce è ben sostenuta in tutta la tessitura, dal Do «della lama» all’affondo nel registro grave di «or gli perdono», e il fraseggio è sempre vibrante e curato. Ciò che le manca, e che temo non le consentirà mai di arrivare ai risultati di una Freni o anche di una Dessì, è la pura bellezza del materiale e la capacità di fletterlo in una ricca palette di colori; ne siano la causa limiti naturali ovvero uno sfruttamento non adeguato delle cavità di risonanza, la voce suona un po’ monocolore e quindi una pagina come «Vissi d’arte» appare intensa e ben modellata, ma non ci seduce e incanta fino in fondo. Quasi complementari i limiti del suo Mario, il messicano Diego Torre, che si è trovato a coprire il ruolo in tutte le recite, dopo i forfait di Murat Karahan prima e di Roberto Aronica poi: bella voce ricca di armonici, impreziosita da una dizione eloquente, ma cantante dal fraseggio un po’ generico e a tratti stentoreo, anche se momenti come una «E lucevan le stelle» di efficace intimismo (alla Prima è stata anche bissata), introdotta da un clarinetto particolarmente ispirato, lasciano sperare che l’ancor giovane tenore abbia degli spazi di miglioramento tali da non confinarlo nella nutrita categoria del classico cantante «generoso».
Tra i comprimari ha brillato soltanto lo Spoletta di Didier Pieri, attore efficace e voce flessibile e ben proiettata. Buone le prove dei complessi del Carlo Felice, con lode particolare alle voci bianche dirette da Gino Tanasini; Valerio Galli ha conferito all’orchestra pienezza di canto, anche se non abbiamo ascoltato nella partitura le finezze illuminate da un Karajan o da un Sinopoli. L’allestimento proveniva da una coproduzione tra OperaLombardia e Reggio Emilia: solo il secondo atto tradiva il fatto di essere pensato per palcoscenici più angusti, mentre è piaciuta l’improvvisa apertura delle quinte per la scena del Te Deum, che ha aiutato a focalizzare la magistrale «teatralità» della scrittura nella distribuzione tra solista, Capitolo e Coro. La regia di Andrea Cigni immerge l’azione in una Roma papalina soffocata dalla pressione degli sgherri di Scarpia, tanto che la sua morte sfocia in un senso di liberazione rappresentato dallo spazio aperto e spoglio che ospita il terzo atto. A parte qualche eccesso di crudeltà poliziesca, si è trattato di una soluzione tutto sommato calzante e garbata, e in un certo senso «antimoderna»: piuttosto che far girare tutta l’opera attorno a un concept forte, magari andando di traverso alla partitura, Cigni ha favorito la più difficile strada di un lavoro certosino sui movimenti dei personaggi e sulla credibilità dei loro comportamenti; spesso raggiungendo esiti notevoli, come nella citata scena dell’indagine di Scarpia, o quando Tosca cerca febbrilmente il salvacondotto.
Roberto Brusotti
(Foto: Marcello Orselli)