BACH Concerti brandeburghesi Zefiro, oboe e direttore Alfredo Bernardini
Roma, Istituzione Universitaria dei Concerti, Aula magna dell’Università “La Sapienza”, 19 ottobre 2019
Si è imposto negli ultimi trent’anni come uno dei migliori ensemble strumentali italiani; si è fatto conoscere ed apprezzare grazie a centinaia di concerti e registrazioni discografiche con esecuzioni — come si suol dire — storicamente informate, ovvero osservanti la prassi filologica e con strumenti antichi: è l’ensemble Zefiro, diretto dal romano Alfredo Bernardini e da lui fondato nel lontano 1989 insieme a Paolo e Alberto Grazzi, rispettivamente oboista e fagottista. Da qui, una certa attenzione e predilezione per la musica settecentesca per fiati. Per spegnere le prime trenta candeline l’ensemble, nel novero di una nutrita tournée, è approdato a Roma, all’Aula Magna della Sapienza, dopo l’applauditissimo concerto gesualdiano de Les Arts florissants, per l’integrale dei sei Concerti brandeburghesi di Bach, un caposaldo della letteratura strumentale barocca ed una summa della tavolozza timbrica dello stile concertante del primo Settecento.
Come è ormai acclarato, nonostante siano stati dedicati nel 1721 al Margravio Christian Ludwig di Brandeburgo, i sei Concerti brandeburghesi (il nome si deve a Spitta) derivano da composizioni nuove o rielaborazioni di quelle stilate quando Bach era maestro di cappella alla corte di Anhalt-Cöthen (1717-23). Difficile stabilirne la cronologia, nonostante il Besseler asserisca che i più antichi siano il VI e il III ed i più recenti il IV ed il V. Il riferimento, oltre che a esempi francesi e tedeschi, è naturalmente soprattutto al modello italiano del Concerto grosso o del Concerto solistico (Corelli e Vivaldi in primis), ma il modello viene superato e assimilato in maniera del tutto originale con una estrema varietà sin nella scelta dell’organico del concertino. Infatti Bach sembra fondere lo stile del Concerto grosso con quello solistico (si pensi alla lunga e pionieristica cadenza del cembalo nel V), lasciando ampio spazio a solisti specie nel Quarto e Quinto. Molti, tra i vari Concerti brandeburghesi, i rimandi interni di tonalità, di caratteri tematici, di organico (III e VI per soli archi ad esempio) che evidenziano forse una sorta di criterio razionalistico programmatico. Una musica sapiente, ma anche fortemente espressiva, dotta ma fantasiosa, che rappresenta un test significativo del valore specifico di ogni variegato organico strumentale. La successione scelta da Bernardini non è quella del manoscritto (ma 1-6-4 e in seconda parte 5-3-2) ed obbedisce a criteri meramente musicali. La lettura di Zefiro è improntata poi ad un sano vitalismo nei tempi veloci (il cosiddetto horror vacui sonoro), all’esaltazione del colore e ad un intenso melodismo negli Adagio, dove a cantare (come nel n.1) è persino il contrabbasso. L’agile passerella dell’intero strumentario barocco si avvale qui di solisti d’eccezione, come Cecilia Bernardini al violino, Marcello Gatti al traversiere, Gaetano Nasillo al violoncello e Gabriele Cassone alla tromba in fa (per lo squillante n. 2, posto in gioiosa chiusura di serata). Cantabilità, ritmo danzabile e agili fugati, ingredienti del cosiddetto “stile misto”, offrono all’ascolto una tavolozza fantasmagorica, vero ossigeno per le orecchie. Tutti i concerti, salvo il Terzo e Secondo, erano eseguiti con bravura senza direttore alla maniera antica. Costante comune erano lucentezza e brillantezza.
La sala esaurita e la presenza di molti giovani rallegravano la vista. Insomma, per dirla col poeta, Zefiro torna e il bel tempo (musicale) rimena.
Lorenzo Tozzi