DONIZETTI L’ange de Nisida F. Sempey, R. Lorenzi, K. Kim, L. Fridman, F. Benetti; Coro Donizetti Opera, Orchestra Donizetti Opera, direttore Jean-Luc Tingaud regia Francesco Micheli scene Angelo Sala, costumi Margherita Baldoni
Bergamo, Teatro Donizetti, 21 novembre 2019
DONIZETTI Lucrezia Borgia M. Mimica, C. Remigio, X. Anduaga, V. Abrahamyan, M. Pierattelli, A. Martini, R. Maietta, D. Lettieri, R. Cavalluzzi, E. Milletti, F. Benetti, C. Corradi, A. Yague, F. Verga; Coro del Teatro Municipale di Piacenza, Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, direttore Riccardo Frizza regia Andrea Bernard scene Alberto Beltrame costumi Elena Beccaro
Bergamo, Teatro Sociale, 22 novembre 2019
I due titoli che si sono alternati a Pietro il Grande (recensito su MUSICA 312) durante il festival «Donizetti Opera» hanno in comune una data: 1840. Donizetti, a quel tempo, si trovava a Parigi da più di un anno, e stava conquistando i teatri lirici della capitale francese. Accanto ai tre storici (Opéra, Opéra-comique e Italien), ne era sorto, da poco, un quarto per iniziativa privata: il Théâtre de la Renaissance, che ebbe tuttavia vita breve, in quanto destinato a fallire proprio nella primavera di quell’anno. E di questo fallimento cadde vittima, a suo modo, anche il compositore bergamasco, il quale, dopo avervi presentato la versione francese di Lucia, aveva scritto per la Renaissance una nuova opera, già giunta in fase di prove: L’ange de Nisida. Concepita per un’istituzione che esulava dalle rigide suddivisioni di generi che regnavano negli altri teatri parigini, la nuova partitura si rivelò difficile da adattare alle aspettative del pubblico delle altre sale, tanto che Donizetti preferì accantonarla e recuperarne alcune pagine in successivi lavori: un’aria andò in Don Pasquale («Un foco insolito»), ma il grosso confluì nella Favorite, la cui drammaturgia, specie dalla metà del III atto in avanti, segue fedelmente quella dell’Ange. Nei primi atti le divergenze tra le due opere sono più numerose, in quanto L’ange contempla la presenza di un ruolo buffo (si chiama don Gaspar, ma nulla ha a che fare con l’omonimo comprimario della Favorite) che la configura come curioso esempio di opera semiseria francese a finale tragico. Nelle operazioni di riscrittura che seguirono il fallimento del teatro, la partitura dell’Ange ‒ che era già frutto della riscrittura di una precedente incompiuta Adelaide ‒fu, anche fisicamente, smembrata, e una sua ricostruzione è stata possibile solo recentemente grazie ai lunghi anni di studio della musicologa Candida Mantica: la prima esecuzione assoluta, in forma di concerto, è avvenuta nel luglio 2018 a Londra (si veda la recensione su MUSICA 300), sotto l’egida di Opera Rara, che ha sostenuto l’importante operazione culturale e realizzato un’incisione discografica del titolo. Ora l’opera vede finalmente la luce delle scene, e la vede in un contesto particolare: dato che i restauri del Teatro Donizetti si sono protratti più di quanto inizialmente previsto (nessuno se ne stupirà, nel nostro Paese…), l’allestimento è stato realizzato in un cantiere aperto, con tutte le precarietà del caso (incluse tracce di polvere e calce che rimangono sugli abiti degli spettatori), la platea trasformata in ampio palcoscenico, il palcoscenico usato per ospitare una cavea provvisoria, il grosso del pubblico sui palchi e l’orchestra nella buca, ma spalle alla sala, verso la quale guardava il direttore Jean-Luc Tingaud (valido concertatore, sia pure alle prese con un’acustica un po’ anomala, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera e di un Coro, istruito da Fabio Tartari, in ottima forma). Francesco Micheli, direttore artistico del festival e regista dello spettacolo, ha saputo valorizzare con efficacia l’insolito spazio scenico, ponendo anche visivamente l’accento sulla storia della partitura (le cui pagine coprono il pavimento e piovono dalla balconata) e creando uno spettacolo dinamico. Se un’ambientazione atemporale poteva essere azzeccata, ha lasciato qualche perplessità la scelta di introdurre un richiamo puntuale alla malavita contemporanea, che si sostituisce alle gerarchie di corte nella determinazione dei ruoli e delle scelte dei personaggi; richiamo che, peraltro, si affievolisce nel III atto (dove tutti vestono costumi di evidente cartapesta), per tornare, ma forse solo nella mente della protagonista, durante il finale ultimo. Il cast, completamente diverso da quello londinese, si è trovato a debuttare un’opera per la quale non esistono, di fatto, riferimenti interpretativi. Il soprano Lidia Fridman dispone di una voce chiara di lama tagliente, che si rivela pregevole nel definire la forza interiore del carattere di Sylvia ma un po’ penalizzata nelle finezze ornamentali dell’aria del III atto; il suo momento più espressivo è stata la scena della morte, nella quale delicatezza e dramma si sono efficacemente sposati. Sul fronte maschile, l’antipatico ma tormentato re Fernand (attenzione ai nomi, specie per chi ha in mente La favorite) è stato più seducente dell’ingenuo innamorato Leone. Il baritono Florian Sempey (Fernand) sfoggia uno strumento caldo, timbrato e cromatico, modellato da un intelligente uso del fraseggio e degli accenti; nel duetto con don Gaspar, che apre il III atto, sono risaltati i morsi di gelosia dell’innamorato che prendono pian piano il sopravvento sulle movenze buffe del suo ciambellano. Il tenore Konu Kim (Leone), alle prese con un ruolo impervio, che associa i tratti della vocalità di grazia a passaggi molto arditi, si è fatto apprezzare dal pubblico per lo slancio virile espresso nell’aria del II atto, ma il suono rischia costantemente di virare sullo sgraziato nel registro acuto, e lo strumento è apparso affaticato dopo l’intervallo, tanto da compromettere gli equilibri sonori della stretta del finale III, che avrebbe dovuto guidare con orgoglio risentito. Dei bassi, il buffo Roberto Lorenzi ha reso con espressività il ruolo di don Gaspar; Federico Benetti, come Monaco, ha offerto un’interpretazione corretta.
Trattandosi di una partitura cui mancò l’imprimatur definitivo del compositore, talune scelte esecutive relative all’Ange possono essere oggetto di discussione, e così l’edizione bergamasca ha presentato alcune divergenze rispetto a quella di Opera Rara. Se risulta apprezzabile la scelta di non suonare un preludio composto ex novo da Martin Fitzpatrick; la decisione di proiettare i sopratitoli muti nelle pagine di recitativo di cui si sono perse le note donizettiane è molto filologica, ma poco praticabile qualora l’opera dovesse entrare in repertorio. Quanto all’aria di Sylvia, tra le tante opzioni possibili, il sottoscritto ne avrebbe scelta una differente tanto da ciò che si è fatto a Londra, quanto da ciò che si è fatto a Bergamo. Ma, in fin dei conti, al di là delle preferenze musicologiche, il tentativo di far nascere un’opera che da 180 anni pareva destinata a rimanere nel limbo è riuscito ‒ di certo con maggiore perizia di quanto avesse fatto Matteo Salvi a fine Ottocento col Duca d’Alba ‒ e la partitura ha dimostrato di potersi reggere autonomamente sulle scene senza dover sottostare ai pur inevitabili confronti con La favorite. Un’ultima osservazione: disponendo di soprattitoli bilingui, sarebbe opportuno, a fianco dell’italiano, proiettare il testo in lingua originale anziché nella traduzione inglese.
L’ange de Nisida, si diceva,non ebbe l’imprimatur definitivo di Donizetti; di Lucrezia Borgia, invece, si contano almeno dieci versioni, differenti per svariati dettagli, che andarono in scena sotto il diretto controllo dell’autore, col paradossale effetto di lasciare una eguale libertà agli interpreti circa le scelte testuali da accogliere in sede esecutiva. Nell’abbondanza di materiali relativi alla Borgia ha messo ordine la nuova edizione critica curata da Roger Parker, che il festival ha adottato per la prima volta, confermando l’attenzione musicologica che costituisce una delle prime ragioni d’interesse della rassegna. E, tra le varie edizioni dell’opera, la scelta è caduta sulla versione approntata per il Théâtre Italien di Parigi (dove andò in scena il 31 ottobre 1840, sette anni dopo la prima milanese), che comprende: la cabaletta «Si voli il primo a cogliere» in luogo della seconda strofa della romanza di Lucrezia, nel Prologo; la romanza di Gennaro «Anch’io provai le tenere», scritta per il tenore Mario, nel II atto; l’arioso di Gennaro morente «Madre, se ognor lontano», seguito da una sola strofa della cabaletta di Lucrezia, nel finale ultimo. Tuttavia, il proposito di attenervisi fedelmente non ha avuto seguito, poiché è stato reintrodotto il duetto tra Gennaro e Orsini del II atto, soppresso a Parigi. Venuta meno la fedeltà a una precisa edizione storica, sarebbe forse stato opportuno calibrare le scelte esecutive sulle caratteristiche vocali dei solisti, come sarebbe accaduto a metà Ottocento. E, per valorizzare al meglio la vocalità attuale di Carmela Remigio, il ruolo di Lucrezia avrebbe potuto essere proposto nella versione milanese, con le due strofe di «Com’è bello» e la ripetizione della cabaletta «Era desso il figlio mio», passi nei quali il soprano ha agio di mettere a frutto nel migliore dei modi il proprio strumento e la sapienza interpretativa maturata, fatta di accenti, tornitura della frase, scavo psicologico del personaggio, specie dell’affetto materno che la pervade e condiziona fino a portarla all’ira (mirabile il suo scontro con Alfonso nel finale I), al crimine e alla disperazione straziante del finale. La coloratura brillante di «Si voli il primo a cogliere», al confronto, rischia di risultare pallida. Il tenore Xabier Anduaga si era fatto notare durante l’edizione 2018 del festival, nel Castello di Kenilworth; a distanza di un anno conferma la bellezza della voce (lievemente sporcata da qualche inflessione nasale) e l’abilità nel falsetto e nelle mezze voci che permettono di delineare un Gennaro ingenuo e nostalgico. Il basso Marko Mimica è un duca Alfonso più signorotto prepotente che abile dissimulatore, conformemente alle indicazioni registiche. Il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan, quale Orsini, si fa notare per i bei colori, che fanno perdonare qualche piccola imprecisione, e per l’interpretazione della ballata, che da allegra diviene straziata man mano che i sintomi dell’avvelenamento si fanno sentire.
La concertazione di Riccardo Frizza, dopo una piccola incertezza al primo ingresso delle voci, è stata, come di consueto, rigorosa. Il regista Andrea Bernard ha creato uno spettacolo storico di impostazione moderna, poiché, tra scene e costumi di gusto rinascimentale, si svolge un’azione che nulla ha a che vedere con la convenzionalità che spesso si associa al concetto di regia tradizionale. Affascina l’idea di sovrapporre il piano della realtà e quello dell’inconscio, in quanto si tratta di una sovrapposizione intelligibile senza essere banale e ricorrente senza essere invasiva, con la figura dell’indovino evocato da Maffio Orsini che torna come un fantasma nei momenti in cui la sua profezia si compie; e, soprattutto, con la sottolineatura del dramma psicologico di Lucrezia, che rivive la maternità negata nell’immagine di una culla che viene infranta quando, nel finale del prologo, si sente insultare di fronte al figlio ritrovato. Di contro, pare eccessiva la violenza fisica messa in scena, anche a costo di snaturare il significato di alcuni passi donizettiani, come il duettino tra Astolfo e Rustighello, che dovrebbe essere una pagina semisera ed è invece trasformato in una scena squallida da bassofondo criminale.
Marco Leo
Crediti fotografici: Gianfranco Rota