MAHLER Sinfonia n. 9 Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia, direttore Myung-whun Chung
Venezia, Teatro La Fenice, 6 Dicembre 2019
«Come siamo stanchi del nostro cammino – è forse questo un po’ morire?» scriveva Joseph von Eichendorff in una significativa premonizione del percorso di sintesi del sinfonismo mahleriano, giunto a compimento nel capolavoro della nona sinfonia, dove la poetica del viaggio e della sua fine ineluttabile si articola e declina in molteplici prospettive. Mahler si è ormai consolidato per Myung-whun Chung come una colonna portante del proprio percorso artistico in continua crescita, e con lui quello dell’Orchestra della Fenice, insieme alla quale ha raggiunto negli ultimi anni risultati eccellenti. Doppiamente bravi, tutti, perché è davvero arduo affrontare così bene questa sinfonia in pieno svolgimento di un’opera come Don Carlo di Verdi, quando la mente meriterebbe di non distrarsi con altro nel liberarsi e immergersi totalmente in questa musica. Non dimentichiamo poi, specie per partiture così complesse sotto il profilo dell’indagine dell’Io e dell’estetica, che l’evoluzione della storia dell’interpretazione in generale chiede sempre di più, desiderando di andare oltre esecuzioni impeccabili e di buona fattura, che facilmente sconfinano invece nella routine appunto del “ben fatto” e dell’ordinario artigianato. Con Mahler è ormai d’obbligo cercare personalità forti, perché il dramma mahleriano non è per tutti, dirigere la Nona Sinfonia non è nemmeno una gara o una prova di resistenza, e chi non riesce e non è disposto a farsi carico delle sue sconvolgenti verità interiori cambi pagina, il repertorio è vasto. Chung vive una sua dimensione spirituale che sa accogliere con verosimiglianza tutte le inquietudini e le devastazioni della partitura, il dualismo tra accessi iridescenti e la poesia contemplativa, la distensione del dramma nei respiri. Con Chung la Nona emerge comunque nella sua universale attualità, coi suoi dissidi interiori, sociali che permangono dentro e fuori di noi. Non solo. Con affreschi così imponenti e visionari, anche la poetica del silenzio si afferma con una sua precisa drammaturgia: Chung sa giocare con le attese e le preparazioni, sia prima dell’incipit che prima dell’Adagio conclusivo, dove il suono nasce dal silenzio e ne interrompe l’esistenza in un preciso istante temporale in cui tutti – orchestra, pubblico – concentrano quasi magicamente la propria attenzione, tutte le proprie vite, verso qualcosa che sta per accadere, in divenire. Poi ci sono i bruckneriani e i mahleriani, ma forse è proprio la Nona a metterli un po’ d’accordo, anche se Mahler resta più dissociativo, presagisce l’inizio della fine, sia in senso storico che estetico. Chung riunifica con alta tensione, ad esempio, le articolazioni cameristiche dei due movimenti centrali nel loro effetto straniante, sfidando il pericolo di assuefarsi a certe pericolose rigidità nascoste dietro ogni angolo attraverso la titanica operazione con cui Mahler porta dentro la grande orchestra la musica da camera; cura sempre il legato, accende le densità polifoniche, riuscendo a far ulteriormente emergere benissimo – anche grazie ai solisti dell’orchestra – quel ribaltamento strutturale operato da Mahler nel creare e far vivere in perenne dialogo all’interno della compagine sinfonica due orchestre, archi e fiati, due entità con identità ben definite, a cui conferisce ruoli e caratteri precisi, secondo una tavolozza timbrica che smembra, ricompone e ricostituisce la partitura. C’è tuttavia da chiedersi sempre quale sia il tempo “giusto” dell’Adagio finale o, più in generale, di questa sinfonia. Un dilemma. Nell’affrontarlo, capolavoro conclusivo che segna anche l’epilogo dell’epopea mahleriana (se consideriamo che la Nona Sinfonia fu eseguita postuma, e che la Decima resta un esperimento di cui mai sapremo l’esito), Chung non lascia spazio a eccessi contemplativi o a lentezze meditative, ma ne tende al massimo le contraddizioni e le tensioni incandescenti in un afflato lirico e un suono così unitario come non abbiamo mai sentito dagli archi dell’orchestra della Fenice, veramente “insieme”, uniti in un unico respiro, un’unica pulsazione, un unico flusso. E nel ritorno al silenzio della fine, specchio dell’inizio, immersi in quello che per Anton Webern «non si conclude; sempre più lento, sempre più ampio, sempre più tenero, senza fine», restiamo abbagliati e annichiliti, abbandonati in una visione indimenticabile.
Mirko Schipilliti