MADERNA Hyperion C. Bene (voce in absentia) G. Trovalusci (flauto, flauto in sol e ottavino) C. Schmitt (oboe, musetta, oboe d’amore), Ensemble Ars Ludi (percussioni), Ready-Made Ensemble (coro da camera), Orchestra Sinfonica Abruzzese, Giuliano Mazzini (maestro del coro), Marcello Panni (direttore)
Roma, Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) Aula Magna dell’Università La Sapienza, 4 Febbraio 2020
Per il centenario della nascita di Bruno Maderna, l’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) ha proposto un’esecuzione di una delle sue due opere pensate per la scena, Hyperion (l’altra è Satyricon), mentre le altre tre, Il mio cuore è nel Sud, Don Perlimplin e Ritratto di Erasmo sono state concepite per la radio. Una caratteristica di questi cinque lavori, e di altri del compositore veneziano, era di essere “opere aperte” di musica aleatoria, che potevano assumere forme diverse ad ogni rappresentazione, eliminando o aggiungendo brani, o numeri musicali, e cambiando, quindi, anche struttura, creando, quindi, ogni volta un nuovo lavoro.
La prima versione di Hyperion, definita “lirica in forma di spettacolo”, era nata dalla collaborazione di Maderna col regista Virginio Puecher, il quale aveva dato forma scenica a un insieme di materiali musicali già autonomamente composti dal musicista veneziano, adattandovi alcuni brani di Hyperion, un romanzo del grande scrittore protoromantico tedesco Friedrich Hölderlin. In tal veste fu rappresentato al Teatro La Fenice in occasione della Biennale di Venezia del 1964. In seguito Maderna continuò a lavorarci, preparandone personalmente altri due allestimenti scenici (Bruxelles e Bologna, entrambi nel 1968), nonché quattro versioni da concerto e due suite (Berlino 1969 e Vienna 1970). Ma se ne sono avute tante altre versioni, anche senza l’intervento diretto dell’autore. Insomma, un work in progress che tra aggiunte e tagli cambiava ad ogni esecuzione in maniera anche radicale. Una concezione, per molti aspetti, caratteristica delle scuola musicale di Darmstadt, di cui Maderna faceva parte.
La suite per voce recitante, flauto, oboe, coro, orchestra e orchestra registrata presentata dalla IUC corrisponde quasi interamente a quella eseguita all’Accademia di Santa Cecilia del 1980 (a nove anni dalla morte del compositore); non viene eseguita l’aria iniziale per soprano, sostituita da una Introduzione orchestrale tratta da Dimensione III (brano del 1963 con una cadenza per flauto). Nell’edizione del 1980, aveva un ruolo importante la voce recitante di Carmelo Bene, che allora aveva avuto grandi successi come interprete di concerti (si pensi al Manfred di Schumann presentato alla Scala ed a Bologna o allo spettacolo-concerto Majakovskij, visto ed ascoltato a Roma ed alla Sagra Musicale Umbra a Perugia). Carmelo Bene approntò lui stesso una traduzione dei brani di Hölderlin. In questa versione del 1980, se ben ricordo, la voce recitante assunse un ruolo maggiore che nelle precedenti, anche a ragione della personalità, e della notorietà, di Carmelo Bene. I complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia erano diretti da Marcello Panni (sul podio anche all’esecuzione della IUC). La voce di Bene venne registrata dalla Rai per farne un disco, che, però, non fu mai realizzato. La registrazione è stata utilizzata per il concerto IUC. Avere alcuni dei protagonisti dell’esecuzione ceciliana del 1980 (o di persona o su nastro) dà un certo sapore di amarcordalla serata del 4 febbraio, un amarcord che però pone interrogativi sull’attualità di quella che fu la schiera di compositori italiani che nella seconda metà del Novecento furono attratti da Darmstadt e la seguirono (oltre a Bruno Maderna, Franco Donadoni, Aldo Clementi, Francesco Pennisi). Pierre Boulez, che fu uno degli animatori di Darmstadt, intitolò nel 1951 un suo articolo Schönberg est mort per decretare la fine del serialismo. Oggi si può dire Darmstadt è morta, anzi morta da lustri: è finito un certo tipo di sperimentalismo che ha avuto poco seguito e che oggi ha lasciato le sale da concerto.
Torniamo a Hyperion ed alla sua esecuzione il 4 febbraio nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza, piena in ogni ordine di posti, da un pubblico anche giovane ed interessato a conoscere Maderna, oggi pochissimo presente nei programmi delle stagioni concertistiche, e che ha salutato il concerto con applausi calorosissimi, a volte al confine con ovazioni.
Per la IUC è stato senza dubbio un enorme sforzo produttivo, in quanto il concerto richiede circa ottanta musicisti. Doveroso dire che, probabilmente a ragione di una registrazione non accuratissima della voce di Carmelo Bene e di volume troppo alto, “la voce in absentia” copriva un po’ i musicisti, almeno per coloro, come me, che erano nelle prime file della sala. Ciò quasi dava l’impressione che il concerto mirasse più a ricordare l’attore (il quale – debbo ammettere – non è mai stato tra i miei interpreti preferiti) che il compositore. La voce di Bene ha un po’ offuscato l’elegante, calligrafica scrittura della partitura.
Marcello Panni ha concertato il grande complesso con delicatezza, quasi con la dolcezza che si addice ad una commemorazione unica, ossia senza repliche né a Roma né altrove. Pure per lui è una rievocazione di un momento importante di quarant’anni fa. Lo si avverte dal tocco gentile del primo episodio – Introduzione e messaggio – in cui l’orchestra dialoga, oltre che con Carmelo Bene, con il flauto (un vero virtuoso: Gianni Trovalusci). Nel secondo episodio – intitolato Solo – il dialogo (sempre raffinato) è tra la musetta (Christian Schmitt), l’orchestra e l’orchestra registrata. Si va, poi, ad un salmo o meglio Psalm in cui domina il coro. Quasi a giustapporsi al salmo, l’oboe (Christian Schmitt) intona un Klage (lamento) che precede la Battaglia il cui confronto è tra orchestra ed orchestra registrata. Dopo il combattimento un lungo monologo di Hyperion (che ha perso la battaglia), Schicksalslied (Canto del destino) quasi un omaggio a Brahms dove, però, primeggia l’oboe d’amore in dialogo con il coro e l’orchestra; indica il travaglio dell’uomo di fronte alla pigra beatitudine degli dei. La conclusione, intitolata Aria II, è la trascrizione per flauto basso, flauto in sol e orchestra di una pagina intrisa di lirismo che accompagna l’ultimo monologo di Hyperion.
Giuseppe Pennisi
Foto: Claudio Rampini