La pianista italo-tedesca Sophie Pacini è stata premiata dagli International Classical Music Awards nel 2017 come migliore giovane musicista dell’anno: artista sensibile e raffinata, ha voluto affidarci queste acute riflessioni sul difficile momento che il mondo intero sta vivendo, ma in relazione alle onnipresenti celebrazioni del 250° della nascita di Beethoven e al modo di fruirne la musica. Grazie, Sophie!
Non contiene forse, questo nostro tempo odierno, a guardarlo bene, un chiaro e urgente messaggio per noi tutti? Non si avverte forse la sensazione, o anche la convinzione, che Beethoven voglia aprirsi un varco in noi ancor più direttamente di quanto non avviene attraverso questa permanente, ossessiva circolazione delle sue note? Non ci sarà, forse, bisogno di sordità per determinare il criterio di valore dell’ascolto?
Proprio nell’anno di Beethoven siamo esiliati nel «silenzio». Eravamo abituati ad ascoltare a ciclo continuo, quasi incapaci di collegare tutte le impressioni uditive che ci circondano ogni giorno, a emozioni, quasi incapaci di ancorarle in noi, di trasformarle in messaggi rivolti alla propria esistenza, di stabilire un legame, in quanto ascoltatori, fra il passato e il presente così da poter immaginarne il futuro. Abbiamo cominciato a scaricarci «Relax-apps» per fare calma intorno. Proprio quel nostro organo sensoriale, che avremmo dovuto utilizzare validamente per avere percezione del fatto già prima di averlo ordinato visualmente, è stato reso sordo. Abbiamo cominciato ad aver paura del vuoto che ci ingoierà, non appena saremo risparmiati da questo chiasso continuo, quando ci sarà impossibile distrarre ogni volta i nostri pensieri dalle paure umane che ci assediano: ansie che avevamo cominciato a collegare al silenzio, sebbene fosse importante trarne partito per imparare a conviverci e servircene per andare avanti. Siamo fuggiti dal vortice del tempo che aveva cominciato a inghiottirci, nella speranza di camminare, di riempire le nostre orecchie con smog sonoro continuo e così sfuggire al «silenzio». Ed ecco che ora siamo stati raggiunti dalla violenza di una forza suprema, dalla presenza di un potere al quale non possiamo sfuggire. Ciò che abbiamo accettato come ovvio, ora tace. Non abbiamo imparato a confrontarci prima con questo sentimento: è troppo per noi, siamo preda di paralisi ignota.
Non è forse un’ironia della sorte il fatto di scoprirci di colpo «sordi» proprio nell’anno in cui dappertutto e in ogni momento celebriamo il genio di Beethoven? Non ci vogliamo rassegnare, facciamo stream da ogni casa, in ogni qualità di suono, in ogni situazione di vita, e talvolta vogliamo rendere felici a forza persone che in quel momento si leccano altre ferite. Tuttavia, comportandoci cosi (da artisti che lasciano presumibilmente tutto com’era), ci lasciamo sfuggire proprio il fatto che la consegna di Beethoven è un’altra: è che, “lui maestro”, la musica va capita come elemento di coinvolgimento che nasce dal profondo, che esige un lavoro di lima costante fino all’estrema perfezione, come esperienza che mai deve attraversare la nostra anima senza un fine e senza un senso.
Ognuno si sente direttamente parte attiva se è disposto a ritagliare entro il proprio silenzio interiore un angolo di sentimenti da portare alla luce. Far musica non è possibile dovunque e sempre, essa custodisce e riunisce in sé valori di rara sensibilità e di vera integrità: per lei è possibile una fruizione comune del sublime. Non nasce forse dall’opera creativa di Beethoven il messaggio che il suono presuppone un’armonia dello spirito che cresce solo in uno spazio pieno di silenzio? E che un ostacolo è tale solo se noi lo percepiamo come tale? Che noi riusciamo a creare in modo nuovo solo se orientiamo al nuovo le nostre antenne interiori? Che, al di là di ogni nostra immaginazione, la forza della musica scaturisce dal nulla? Che, infine, è necessario intraprendere altre strade quando sentiamo di non poter più affidarci a ciò che era dato, abituale e che una volta osato questo passo si può imparare a creare in modo più autentico, certi che la conferma va ricercata nell’equilibrio interno alla nostra forza immaginativa.
La composizione di “Seid umschlungen Millionen” (“Abbracciatevi, moltitudini)” è il messaggio che Beethoven voleva consegnare all’umanità e per esso scelse di introdurre la voce umana, il taglio più spigoloso ma inconfondibile delle parole, quando uno riesca, come Schiller, a trovare quelle giuste. Beethoven ci stringe in un abbraccio di parole adagiate nel solco musicale, parole che bussano alla porta del nostro spirito, musica che cinge in un abbraccio la nostra anima, così da render possibile, grazie a quell’intesa, una fusione di forze libere. Beethoven trova il coraggio di osare il nuovo, sente che c’è bisogno di un messaggio più efficace, di una forza di persuasione più chiara e di un coinvolgimento emotivo più diretto, realizzabile in una formula innovativa di concordia fra parola e musica. Anticipare i tempi per restare atemporale. Così, al di sopra del tempo, da permettere all’Europa di richiamarsi ogni volta a questa frase musicale per suscitare a nuova vita una facoltà e un’altezza di sentire che siano in grado di tenerci uniti. Per tendere le braccia l’uno all’altro e in tempi di un nuovo inizio rimanere insieme coraggiosamente, consapevolmente e senza ambiguità. Beethoven non è solo un messaggio per l’arte, piuttosto egli innalza l’arte a pietra di fondamento etico, a significare che il nostro vivere, ravvivare, sopravvivere, “trascorrere” la vita, è arte e che la «vita» è copia insoddisfacente dell’arte. Vivere fino in fondo il messaggio di Beethoven equivale ad applicarlo come unità di misura in tutti i settori della vita e a fare nostra la sua missione di visionari, sognatori di un ideale di mondo libero, solidale, che sceglie come suo stendardo un’autenticità senza compromessi e che vede nel silenzio la premessa necessaria alla creazione. Se sfogliamo il vocabolario troviamo che «corona» sta, nella terminologia musicale, per «fermata», «pausa generale»: e non è uno scherzo!
Sophie Pacini