PUCCINI La Bohème M. Agresta, V. Grigolo, M. Cavalletti, M. Olivieri, A. Blue, C. Colombara, M. Peirone, D. Pelissero; Orquesta Sinfónica e Coro Nacional Juvenil Simón Bolívar, direttore Gustavo Dudamel regia e scene Franco Zeffirelli costumi Piero Tosi
Milano, Teatro alla Scala, 28 agosto 2015
Sembra diventato quasi un atto nefando parlare male, o semplicemente esprimere qualche dubbio su “El Sistema” e tutto quanto ad esso legato: intendiamoci, negarne gli enormi risultati sociali e artistici — i primi e i secondi legati indissolubilmente — sarebbe insensato, ma i lati oscuri di quella che è anche un’operazione di comunicazione e propaganda sono stati ben sviscerati, anche se con eccessi e in modo non sempre scientificamente distaccato, dal musicologo inglese Geoffrey Baker, il cui El Sistema. Orchestrating Venezuela’s Youth è un libro che chiunque dovrebbe leggere per avere un’opinione più ampia sull’argomento, prima di agitare, spesso per imitazione, turiboli a Abreu, Dudamel e compagnia suonante (rimando anche a tocarypensar.com per altri approfondimenti). Ma, per ora, vorrei stare ai fatti, cercando di dare un giudizio il più possibile oggettivo sulla replica della Bohème ascoltata alla Scala, con l’Orchestra Bolivar diretta, appunto, da Gustavo Dudamel. Anzitutto, va detto che suonano non semplicemente bene: suonano divinamente, con un appiombo, uno smalto, un virtuosismo quasi irridente, come mostrano tutti i difficili attacchi del primo atto e, soprattutto, la breve sequenza orchestrale che nel quarto precede l’entrata di Musetta. Che, poi, non abbiamo nel fascino timbrico la loro seduzione più evidente, non sarebbe di per sé un problema: la cosa che mi ha lasciato piuttosto perplesso, ascoltando Dudamel e la sua orchestra, è la completa, totale, assenza di consapevolezza di una tradizione interpretativa, di abitudini esecutive. Per l’amor di Dio, fare piazza pulita di vezzi e vizi di un puccinismo deteriore è cosa sacrosanta: ma finché questa operazione la compie un Karajan, che sublima in contemplazione estetica la bellezza melodica, uno Schippers, un Bernstein, si sente benissimo che si toglie qualcosa con un preciso obiettivo, per mettere “altro”. Ma se si fa piazza pulita di centovent’anni di storia esecutiva di Bohème perché — di fatto — la si ignora, e non per scelta consapevole, sostituendo il tutto con una serie di effetti, idee, trovate anche belle, prese singolarmente, ma senza che nel complesso si configurino in una lettura coerente, allora l’insieme crolla. Voglio dire: se il genio di Bernstein evocava Mahler nella fanfara in scena del finale secondo, Dudamel arriva solo all’ipertrofia sonora; i tempi molto dilatati sono belli, anche per la stupenda trasparenza degli archi che non viene mai meno, ma il canto di conversazione pucciniano, così facendo, perde di immediatezza, di semplicità, di efficacia. E poi, insomma, un vero direttore d’opera non avrebbe permesso a Grigolo una così allucinante sciatteria per quanto riguarda il fraseggio, non gli avrebbe concesso entrate sempre in ritardo, anarchia ritmica, continui, volgari portamenti, stimbrature, cachinni vari: e che la voce sia sempre bella e sonora (ma meno che in altre occasioni), francamente non me ne importa più nulla, anche perché il contrasto con la Mimì severa, pudica e riservata della Agresta, benissimo cantata, era davvero stridente. Una Mimì di alto livello, capace di un “Donde lieta uscì” tutto a tinte grigie (anche Dudamel, qui, è molto efficace) e sempre lontana da manierismi e facili effettismi. Il resto del cast, poi, era genericamente buono (peccato che Carlo Colombara sia così enfatico nella “Vecchia zimarra”), ma senza vere punte di eccellenza: essendo però formato, con l’eccezione della Musetta di Angel Blue, da interpreti italiani, forniva quella naturalezza, quell’idiomaticità che mancava in quanto saliva dalla buca. E lo spettacolo di Zeffirelli, ogni volta che lo si riguarda, rimane un miracolo di poesia, genialità scenotecnica, equilibrio fra comico e patetico, tale che sembra non possa esserci altra Bohème all’infuori di questa: Pereira lo sa e, come tutti i suoi predecessori, non ha osato un cambiamento che, prima o poi, dovrà (purtroppo!) pur avvenire. La serata si è chiusa fra standing ovation, inni, applausi, peana e grida di giubilo da parte di un pubblico in gran parte sudamericano.
Nicola Cattò