BRUCKNER Te Deum D. Mataj, D. Salvo, A. Fabiani, A.V. Serra MAHLER Das Lied von der Erde mezzosoprano Gerhild Romberger tenore Clay Hilley. Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 17 ottobre 2020
Dopo le naturali incertezze, dopo aver giustamente escluso un assai vasto titolo wagneriano inizialmente previsto, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha scelto per l’inaugurazione della Stagione 2020-2021 un dittico formato dal Te Deum di Anton Bruckner e Das Lied von der Erde di Gustav Mahler. Non sappiamo quanto i due titoli abbiano effettive ed intime ragioni per star uno dopo l’altro se non prima facie quelle della consueta vicinanza che ai due compositori s’attribuisce nelle storie della musica quali figure emblematiche del maestoso e drammatico crepuscolo della sinfonia di radice austro-tedesca. In realtà all’uno, di tal crepuscolo, altro non può esser imputato se non una dilatazione della forma, costantemente uguale a se stessa e mai e poi mai intesa ad autodistruggersi; all’altro son da ascriversi ben più peccati in tal senso e precipuo quello d’un pluralismo che tra la struttura beethoveniana e il presente ciclo di Lieder, ha avanzato nove o dieci ipotesi sempre l’una dall’altra differenti e innegabilmente eversive. Unico elemento storicamente affine per il Te Deum e per Das Lied appare allora quello d’essere giunti entrambi in “soccorso” alla cosiddetta “maledizione della Nona”: il Te Deum designato da Bruckner in articulo mortis a completar l’ultima sua Sinfonia; il ciclo di Lieder cinesi detto da Mahler “sinfonia” a mera valenza scaramantica. Al fatto però il neobarocco del Te Deum e lo Jugendstil di Das Lied von der Erde, il glorioso In te Domine speravi e lo sfranto Abschied, sono tra loro mondi alieni se ve ne furono. E tuttavia entrambi capolavori assoluti e di ardua esegesi interpretativa. Dopo il ciclo beethoveniano all’aperto nella Cavea del Parco della Musica (era l’estate da poco scorsa), non diremmo che al chiuso della Sala Santa Cecilia (ristretta a un migliaio di posti) sir Antonio Pappano abbia mostrato la stessa complessiva felicità. Certo la dislocazione rarefatta del coro e l’orchestra a scarno organico d’archi, non hanno agevolato la resa di partiture comunque strumentalmente assai importanti. Tuttavia sia nel Te Deum che in Das Lied von der Erde imprecisioni e squilibri non erano rari. In Bruckner soprattutto il coro eccedeva in sonorità e perdeva in smalto, mentre in Mahler gli archi non mostravano il consueto velluto. Abbiamo in ogni caso preferito l’esecuzione del primo. Più rutilante che meditativa, marziale più che spirituale: ma con un bel vigore che sembrava affermare certezze meglio che insinuare dubbi o tenerezze, quali al fatto poi qui non mancano. Dei quattro solisti (tutte prime parti del coro ceciliano) ci è apparso pregevole il tenore Anselmo Fabiani.
Per Das Lied von der Erde sono agli atti esecuzioni in studio e live che mette timore il solo rammentarle. Non si pretende s’eguaglino o che si dicano parole ancor più alte: ma che non s’indulga alla routine senz’altro. Essendo tal “Canto della terra” immenso esito dello scendere nel profondo dell’uomo, del dirne gli splendori e le devastazioni, l’anelito alla vita e lo scivolar verso la morte, le voluttà e le scarnificazioni. Leggibili in tante e giuste prospettive, ma non in quelle — udite da Pappano — della “normalità”, della correttezza, della misura. Contribuiva alla complessiva monotonia esecutiva il mezzosoprano Gerhild Rohmberger, assai opaca nel registro grave e sovente problematica nell’intonazione. Di tutt’altro impatto invece il tenore americano Clay Hilley, voce ampia, luminosa e squillante (Siegfried e Tristan sono nel suo carnet), attento ad ogni increspatura della parola resa ora beffarda, ora tragica, ora rassegnata, per mera virtù di suono e d’accento.
Applausi nell’insieme abbastanza contenuti.
Maurizio Modugno
©Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia / foto Musacchio, Ianniello & Pasqualini