PONCHIELLI Il parlatore eterno B. Pizzuti, G. Montanari, M. Pantò, T. Zandonà, S. Bianchetti; regia Stefano Trespidi scene Filippo Tonon
PUCCINI Il tabarro E. Fabbian, M.J. Siri, S. Simoncini, F. Pittari, D. Procaccini, R. Rinaldi; regia Regia Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi scene Leila Fteita costumi Silvia Bonetti
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona, direttore Daniel Oren
Verona, Teatro Filarmonico, 25 febbraio 2021
In attesa di scoprire le carte sul Festival areniano, che speriamo segni davvero la ripartenza dopo questo incubo di cui in questi giorni ricorre il primo anniversario, la Fondazione veronese continua al Filarmonico la sua stagione, ovviamente in assenza di pubblico e diffusa in streaming. Portando avanti una linea molto condivisibile di riscoperta di rarità dell’otto-novecento italiano (l’anno scorso era programmato l’Amleto di Faccio), la Sovrintendente Cecilia Gasdia ha immaginato un dittico davvero singolare, i cui due pannelli sono evidentemente uniti per contrasto: da una parte il Tabarro pucciniano, dall’altra una quasi prima moderna del Parlatore eterno, brevissima composizione del 1873 di Amilcare Ponchielli.
Daniel Oren, che dopo alcuni anni tornava al Filarmonico, era sul podio per entrambi i titoli: e per l’opera pucciniana, nonostante l’orchestra fosse disposta al livello della platea con ampio distanziamento, si è ricorso all’orchestrazione ridotta di Ettore Panizza (archi 8.6.4.4.2, legni a due, due corni, 2 trombe e un trombone). Tuttavia il Maestro israeliano non ha cercato di sfruttare questa opportunità, magari cercando un fraseggio contrastato e nervoso, e sonorità più scabre e incisive: anzi, l’idea era quella di un Tabarro oleoso, denso, cupo. Eppure, con il suo consumatissimo mestiere, ha fornito un apprezzabile sostegno ai cantanti, con un’elasticità nella concertazione che è quella di chi sa respirare con loro, anche a costo di qualche effetto non propriamente di ottimo gusto: ma la drammaticità del Tabarro, violenta e grandguignolesca, vibrava senza cedimenti nella lettura di Oren, che poteva contare su una Maria José Siri in gran forma, capace di rendere in maniera palpabile la femminilità sfiorita, quel grumo di rimorsi e frustrazioni che rendono indimenticabile il personaggio di Giorgetta. Elia Fabbian (Michele) e Samuele Simoncini (Luigi) erano talora messi alla frusta dalla scrittura dei rispettivi personaggi, ma un livello più che accettabile era garantito; e ottimo si rivelava l’apporto dei personaggi minori. Peccato solo che la regia del duo Gavazzeni-Maranghi non fosse, di fatto, granché percepibile: non ho nulla contro gli spettacoli di tradizione, ci mancherebbe, ma quando sono condotti con professionalità e mano salda, cosa che qui non ho avvertito. E al di là di un progressivo tramonto reso sullo sfondo, particolarmente insufficiente mi è parso l’uso delle luci, che dovrebbero (Strehler docet) essere parte fondamentale di ogni spettacolo.
Tutt’altro mondo nei venti minuti del Parlatore eterno: il titolo ponchielliano è un esperimento fuori tempo massimo di “scena comica” per un basso buffo solista, un logorroico che, nei panni di un giovane medico, chiede la mano di una ragazza e, credendo che i genitori gliela vogliano negare, si imbarca in equivoci e invettive di ogni tipo, salvo chiarire la situazione in extremis, con una sorta di concertato tumultuoso cui partecipano coro e gli altri solisti. In un rossinismo fuori tempo massimo (ma non è difficile avvertire anche echi donizettiani: penso al Campanello), questa breve partitura si regge, come si può immaginare, sulle spalle del cantante protagonista. Bravo, quindi, Biagio Pizzuti a combinare vocalità ferma e ottimo gusto: e ancora più bravo Stefano Trespidi, il regista, a creare uno spettacolo lieve e sorridente, ricco di azione e di idee, che coinvolge tutto il palcoscenico ed i palchi di proscenio, con mano leggera e divertente. E anche Oren, sul podio, fornisce un supporto brillante e premuroso.
Dopo il prossimo appuntamento con le “Didoni” di Jommelli e Purcell, a maggio un’altra preziosa chicca del repertorio italiano più negletto: lo Zanetto di Mascagni, diretto da Valerio Galli.
Nicola Cattò