MOZART Così fan tutte E. Buratto, P. Gardina, A. Luongo, G. Sala, F. Di Sauro, M.F. Romano; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Riccardo Muti regia Chiara Muti scene Leila Fteita costumi Alessandro Lai
Torino, Teatro Regio, 10/12 febbraio 2021
È veramente crudele che una meraviglia simile sia rimasta confinata alla fruizione casalinga, lontana, anestetizzata di un monitor, oppure riservata ai pochi, fortunati giornalisti che hanno avuto l’opportunità di entrare in teatro per la prova generale del 10 febbraio (è il mio caso) o per la recita filmata due giorni dopo e, appunto, disponibile online per sei mesi sul sito del Regio. Ed è delle impressioni avute il mese scorso in teatro che riferirò qui sotto.
Un peccato, dicevo, perché nel riprendere una delle opere che ne accompagna il percorso umano e professionale da più tempo (almeno 40 anni), Riccardo Muti sembra ormai dominare la partitura del Così fan tutte dall’alto, con un totale equilibrio e un’assoluta comprensione degli equilibri delicatissimi che la reggono. Strumenti moderni, ovviamente, uno stacco di tempi che non conosce isterie, ma soprattutto una trasparenza della concertazione che esalta i disegni dei legni, che con la loro morbida, talora pigra cantabilità sono l’esatto specchio sonoro di questo Mozart “all’italiana”, nel senso più ampio del termine. E l’Orchestra del Regio mostra una qualità non solo tecnica, ma anche timbrica che mi ha positivamente sorpreso (anche negli assoli più scomodi, come il corno in “Per pietà”).
Muti accompagna i cantanti con misura, esaltandone le doti vocali e sempre spronandoli, e conduce gli ampi finali con una fluidità, con una logica concatenazione di tempi e colori che, mi ripeto, lasciano all’ascoltatore l’impressione di una giustezza, anzi di una inevitabilità delle sue scelte quale forse neppure in passato si è avuta ascoltando le direzioni di Muti. E poi nel secondo atto, quando la commedia si vena di inquietudini sempre più marcate, sono le pause, le incertezze, le sospensioni ad innervare in maniera evidente questa orchestra straordinariamente poetica, singolarmente umana: questo vale dal duetto “Il core vi dono” in poi, ma soprattutto nella scena dei doppi, finti sposalizi, ove quel “E nel tuo, nel mio bicchiero” sembra una sorta di disillusa elegia sulle ingenuità dell’uomo.
Anche lo spettacolo di Chiara Muti, il cui impianto scenico è dichiaratamente ispirato al quadro Il giuramento della pallacorda di David, non manca di interesse: in una sorta di hortus conclusus in cui i personaggi agiscono spensierati tra giochi e passatempi, a mano a mano le due coppie sembrano conoscere il dolore della vita vera. Un allontanamento, quasi, da un paradiso perduto che però già all’inizio, nei suoi muri leggermente scrostati, rivelava i segni del decadimento. Quello che, nella regia della Muti, sembra eccessivo è il proliferare di controscene, di movimenti, di riferimenti all’infanzia come luogo ideale, e persino il moltiplicarsi (ad esempio nella scena del giardino del secondo atto) di simbolismi pesanti, come le siepi-labirinto (per altro viste in decine di spettacoli); una frenesia che a volte contrasta in maniera sgradevole con le grandi “isole canore”, come la lunga aria di Fiordiligi nel secondo atto. Tuttavia il gioco delle luci è sempre suggestivo, la presenza-assenza di un’idea marittima — senza banali riferimenti a quella Napoli di cartapesta evocata dal libretto — è ben riuscita e i momenti cardine della drammaturgia colti con efficacia, fino ad un finale in cui la morale consolatoria di Da Ponte è smentita da un palese litigio in scena.
I cantanti, tutti italiani, sono parte integrante dell’idea mutiana di un teatro che parte dalla parola, in cui i recitativi sono chiave di volta di tutta la drammaturgia: e per questo eventuali, leggeri problemi vocali sono riassorbiti dalla convinzione e dall’esattezza con cui gli artisti si immedesimano nei propri personaggi. Sopra a tutti si staglia la strepitosa Eleonora Buratto, una Fiordiligi già ottima poche settimane prima alla Scala e che, proprio come avevo immaginato, nelle mani di Muti compie la definitiva trasformazione: non è solo l’assoluta esattezza della linea vocale, la bellezza di acuti radiosi, la precisione della coloratura, la perfezione strumentale del legato a colpire; ma è come tutto questo armamentario tecnico sia associato ad una voce così generosa per timbro e volume, da vero soprano lirico che oggi canta Otello ed Ernani, con una caratura, quindi, che purtroppo oggi non si associa più a Mozart. E la sua Fiordiligi appassionata e femminile, volitiva e disillusa è un personaggio che vorremmo riascoltare molte volte ancora. Paola Gardina, invece, è una Dorabella dai mezzi vocali molto meno sontuosi, e anzi in acuto si avverte una certa tensione: ma sa cantare, e non manca di caratterizzare con efficacia il suo personaggio. Lo stesso si può dire della giovane Francesca Di Sauro, Despina (al debutto) mezzosopranile come spesso si è fatto anche in passato: e il colore vocale subito suggerisce una donna che non ha i “quindici anni” evocati nel libretto, ma le cui esperienze sono molto più ampie… E la Di Sauro abbina ottimo gusto (anche nei due famigerati travestimenti, da notaio e da medico) a linea di canto generalmente corretta. Note liete anche sul fronte maschile: Marco Filippo Romano è un Don Alfonso cinico e disilluso, dalla dizione esemplare, mentre Alessandro Luongo un Guglielmo che canta con correttezza ma che appare ancora un po’ sbiadito nella caratterizzazione del suo personaggio. Gran sorpresa, invece, il Ferrando di Giovanni Sala: che arriva stanco alla fine dell’opera, e quindi fa molta fatica nel duetto con Fiordiligi (dove lo squilibrio fra i due calibri vocali è evidente), ma che cesella una “Aura amorosa” da ricordare, e che complessivamente si pone nelle prime posizioni fra i tenori che, in decenni, hanno troppo spesso funestato questo difficile ruolo.
Non serve, insomma, che vi consigli di vedere questo spettacolo online (a questo link www.teatroregio.torino.it/cosi-fan-tutte/streaming); semmai vi auguro di poterne presto godere in teatro. E ci auguriamo che la collaborazione fra il Maestro e il teatro torinese, che anche prima del Covid viveva una situazione di estrema difficoltà, possa continuare su simili livelli.
Nicola Cattò
Foto: Silvia Lelli – Teatro Regio di Torino