Saggiamente anticipata di qualche ora per evitare la coincidenza con la finale dei Campionati europei di calcio, la finale del Premio Internazionale “Antonio Mormone” è giunta al Teatro alla Scala per il suo ultimo atto: era il momento, per i tre finalisti, della prova con orchestra, dopo che per tre giorni, nella Sala Verdi del Conservatorio, si erano mostrati in veste di solisti e di cameristi, con la preziosa collaborazione di Edoardo Zosi e Liù Pellicciari (violini), Simone Gramaglia (viola) e Stefano Cerrato (violoncello) per i Quintetti di Franck e Dvořák. Importante, inoltre, la presenza come brano d’obbligo di una pagina espressamente composta da Ivan Fedele per il Premio Mormone (WS Variations): una ulteriore conferma delle ambizioni di questo premio, e degli altissimi risultati raggiunti già in questa prima edizione.
I tre finalisti erano la 27enne sudcoreana Su Yeon Kim (vincitrice del Concorso di Montréal poche settimane fa), la 24enne cinese Ying Li e il 23enne polacco Piotr Pawlak: i Concerti scelti tre vette del repertorio tardoromantico e novecentesco russo, quali il Primo di Ciaikovski (per la Kim), il Secondo di Rachmaninov (per la Li) e addirittura il mostruoso, quasi inaffrontabile Secondo di Prokofiev per Pawlak, che ha avuto il coraggio di portare in un concorso una partitura dalla quale quasi tutti i massimi pianisti novecenteschi si sono tenuti lontani (con eccezioni, naturalmente: da Cherkassky a Kissin e, oggi, dalla Rana alla Wang).
L’Orchestra impegnata era quella dell’Accademia della Scala, il direttore il giapponese Toshiyuki Kamioka: spiace davvero doverlo sottolineare, ma il livello di entrambi non era, semplicemente, accettabile sotto alcun parametro musicale. Suono di modesta qualità, problemi di intonazione, continuo ritardo rispetto ai solisti, una assoluta mancanza di tenere una linea musicale facevano sì che parlare di fraseggio o interpretazione fosse un’utopia: chiunque può capire quanto tutto ciò abbia danneggiato i tre giovani pianisti. E, secondo me, la più penalizzata è stata Su Yeon Kim, che alla fine ha convinto solo parzialmente sia sotto il profilo tecnico (i famigerati passaggi di ottave erano talora problematici) che musicale, con una scarsa capacità di caratterizzare il canto nel secondo movimento.
Piotr Pawlak, un pennellone biondo di due metri, suscita ammirazione per — insisto — il coraggio della sua scelta: e ignorando quasi sempre le nefandezze orchestrali ha fatto il possibile per arrivare indenne alla fine. Perfetti i salti del primo movimento, dopo la grande cadenza, notevole l’incisività dei passaggi cromatici e assolutamente perfetto il moto perpetuo in ottava del secondo movimento: e se qualche stanchezza affiorava negli ultimi minuti, questo era più che giustificabile.
La giuria (composta da Bruno Canino, Nazzareno Carusi, Enrica Ciccarelli, Ivan Fedele, Cristina Frosini, Olga Kern, Aleksandar Madzar, Etienne Reymond, Michael Stille, Alexei Volodin, e Ingolf Wunder) ha quindi deciso di premiare Ying Li il cui Secondo di Rachmaninov univa in pari grado efficienza tecnica (e con un bellissimo gioco perlato), potenza di suono a un’estrema libertà nel fraseggio, evidente in un Adagio che non cadeva nei rischi della melassa. Certo, nel finale non si avvertiva quel senso di perorazione retorica che dovrebbe costituire il succo della pagina: ma, ancora una volta, le responsabilità maggiori erano da imputare a bacchetta e orchestra.
Ying Li, originaria di Pechino, è entrata al Curtis Institute of Music di Philadelphia nel 2012 e ha studiato con Jonathan Biss. Nel 2019 è andata alla Juilliard School per studiare con Robert McDonald: ora tornerà a Milano in ottobre al termine di un lungo tour europeo e italiano che fa parte del Premio, oltre alla somma di 30.000 euro, la registrazione del suo album di debutto con la Universal, un contratto con l’agente Lorenzo Baldrighi e il Premio Carl Bechstein che la porterà a esibirsi sul palco della Konzerthaus di Berlino. Ma un premio di 5.000 euro andrà anche agli altri due finalisti, il polacco Piotr Pawlak e la coreana Su Yeon Kim.
Nicola Cattò