Nei giorni scorsi sono stato testimone di un evento che gli appassionati di musica da film non avrebbero immaginato neanche nei loro sogni più audaci: John Williams ha diretto tre concerti a Berlino con la Filarmonica, nell’immaginario collettivo anche dei non addetti ai lavori, forse la più celebre orchestra del mondo. L’evento ha quanto meno un precedente: i due concerti tenuti a Vienna con Anne Sophie Mutter ed i Wiener Philharmoniker nel gennaio 2019, concerti che hanno registrato un successo fuori dal comune (perlomeno in quel tempio della musica “colta” o “forte” come ama dire Quirino Principe).
Sull’onda dell’emozione ancora viva di chi scrive posso, più che redigere una recensione, evocare qualche riflessione in ordine sparso che questi concerti hanno suscitato.
Come prima cosa stiamo assistendo al tramonto di una forma mentis che si è ormai ideologicizzata (se non altro in una parte del pubblico italiano) nell’immancabile equazione musica da film = musica scadente. Se pensiamo che Nino Rota nei salotti belli veniva definito “cinematografaro”, possiamo avere un’idea di come in casa nostra venisse genericamente considerata la musica applicata. Tale atteggiamento ha segnato anche la vita di giganti come Ennio Morricone, forse l’unico intoccabile perché puro genio, che accanto alla musica sperimentale che amava scrivere, ha affascinato con le sue colonne sonore milioni di ascoltatori.
Ma veniamo a John Williams.
Da quel poco che trapela della sua vita privata sappiamo da lui stesso che ci fu un evento che sconvolse nel 1974 la propria esistenza: la morte della moglie, l‘attrice Barbara Ruick, deceduta nel sonno per emorragia cerebrale sul set del film di Robert Altman California Split. Williams aveva già collaborato con Altman per Images (1973) e The Long Goodbye (1974) scrivendo due partiture molto sperimentali. Secondo le sue parole, quella tragedia fu “un enorme punto di svolta emotivo nella mia vita… che risuona ancora oggi. Ed ho immediatamente compreso che strada dovevo percorrere sull’onda di quello stato emozionale”. Lasciato solo con i figli teenagers,è come se si fosse reso improvvisamente conto di quale responsabilità gravasse sulle sue spalle, sia per la vita di tutti i giorni e di conseguenza, come compositore, anche sulla sua produzione musicale. L’accorgersi con coscienza profonda che milioni di spettatori avrebbero ascoltato tramite i film la sua musica, lo ha da allora sospinto a dare tutto se stesso in termini di qualità e di ricerca di una sua propria “voce” originale. Cosa tutt’altro che facile. Ma con Jaws (Lo Squalo) uscito nel 1975 inizia la valanga di partiture che hanno un grado altissimo di ricchezza e complessità musicale. Il “cantastorie” Steven Spielberg si accorge quindi di trovarsi a lavorare con un musicista che avrebbe reso plausibili ed emozionalmente veri i suoi film, di trovarsi di fronte a qualcuno che rende credibile il fatto che le biciclette possono davvero volare (come nella celebre scena di E.T. del 1982).
Non è affatto trascurabile poi che lo straordinario amore di molti per le musiche di Williams abbia una radice profonda nel dolore da lui sofferto interiormente ed è tale impatto ricco di verità che ha permesso a queste musiche di rappresentare anche le nostre storie di vita. In esse si sente inoltre la dedizione e soprattutto la sincerità di chi crea nell’autenticità. E questo è prerogativa di pochi.
Nei giorni successivi al primo concerto a Berlino, ho visionato brevi clip video in cui venivano intervistati alcuni membri dei Berliner: ciascuno di loro ha constatato che è cresciuto con le musiche di Williams e che suonarle dal vivo con l’autore sul podio è stato un evento unico, per qualcuno un sogno impossibile che si realizzava, per qualcun altro, più anziano, che ammette di non aver mai visto nessuno di questi film, è stata la gioia di poter finalmente eseguire le musiche della propria completa collezione di dischi di Williams. Vedere poi i Berliner, letteralmente galvanizzati dal gesto parco di Williams, suonare con un’intensità e una fisicità questo repertorio, che mette alle corde per la difficoltà qualsiasi orchestra, è uno spettacolo nello spettacolo. Ogni brano in programma è stato reso in modo mirabile con molti momenti indimenticabili tra cui l’assolo di corno all’inizio di Jurassic Park, i fluorescenti fiati in Nimbus 2000 da Harry Potter (brano riservato solo a quella sezione dell’orchestra) o gli archi vibranti di passione in Incontri ravvicinati del terzo tipo e poi gli ottoni brillanti e luminosi in Superman. Ho colto nel Throne Room and Finale da Star Wars il sorriso radioso del percussionista, che proprio nelle prime battute deve dare due colpi di piatti, e la gioia straripante, anch’essa piena di sorrisi, del violino di spalla che reagiva con tutto il suo corpo quando Williams si girava verso la fila dei violini primi, ma anche la malinconia del bravissimo Bruno Delepelaire che, oltre ad essere stato primo violoncello per tutto il concerto, ha eseguito come solista l’unico brano in programma non tratto da colonna sonora della serata, l’Elegy per violoncello e orchestra dedicata a due bambini, figli di una violinista che lavora con Williams negli studios di Hollywood, uccisi dal proprio padre (poi suicidatosi) in un episodio di violenza familiare legato al divorzio. Elegy è un brano che rivela un’altra caratteristica di Williams: l’infanzia spirituale. In essa infatti ci fornisce una visione inusuale della morte, non ne marca l’aspetto tenebroso o tragico ma costruisce con colori pastello una realtà luminosa e serena come se la purezza dei due bimbi avesse cancellato ogni umana tristezza. Spiegando al pubblico il significato del brano Williams ha sottolineato che il termine Elegia può avere molte accezioni, può essere un dolore per la perdita di qualcuno, oppure una preghiera personale o in comune, come noi che ora la ascoltiamo, oppure arrivare ad essere emblema di perdono.
Prendendo il microfono ed introducendo altri brani in programma, si è anche tolto qualche sassolino dalla scarpa affermando, pur con l’humour sottile ammantato di dolcezza che lo contraddistingue, che raramente ci si rende conto che durante l’incisione di una colonna sonora c’è un’orchestra di professionisti che esegue una musica difficile e ricca di virtuosismo, purtroppo poi spesso coperta da rumori di esplosioni e assordanti clangori di astronavi. Particolarmente divertente la sua presentazione di Scherzo for Motorcycle and Orchestra (da Indiana Johns e l’ultima crociata): “Potete immaginare il forte colpo che il mio ego subì quando vidi la scena alla prima del film: si sentiva solo il rumore della moto, che in realtà era un sidecar…(risate del pubblico)… eccovi dunque lo Scherzo senza i rumori e le distrazioni del film!”.
Altro elemento su cui riflettevo e che sempre mi ha colpito è la cosiddetta inevitabilità dei temi. Qualche anno fa fu condotta un’indagine legata ai film Marvel: l’intervistatore fischiettava un tema di quei film e nessuno lo riconosceva o ne aveva memoria. Ma fischiettando E.T., Star Wars, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Indiana Jones, tutti rispondevano “ah! questo lo conosco: è Star Wars!”. I temi che si imprimono indelebilmente nella memoria sono in realtà per Williams la fase più difficile e laboriosa nella stesura di una partitura, fase che anche in termini di tempo può durare settimane. Si pensi ad esempio che, per Incontri ravvicinati del terzo tipo,il celebre motto di cinque note lo portò a scrivere centinaia di combinazioni, finché fu scelta quella poi usata nel film. Ancora oggi Williams si lamenta del fatto che Spielberg insistesse su sole cinque note: “Ne avessi avute almeno otto sarebbe stato più facile”.
Questa complessità musicale ha posto le basi per partiture che possono acquisire senso compiuto ed efficacia anche eseguite in sala da concerto senza l’ausilio delle immagini. Il primo eclatante successo in questo senso fu la Suite Sinfonica da Star Wars che, appena resa pubblica poco dopo l’uscita del film, fu eseguita da una marea di orchestre (perlopiù americane) ed incisa da Zubin Mehta con la Los Angeles Philharmonic, unitamente ad un analogo brano da Incontri ravvicinati del terzo tipo. Tale fenomeno è andato sempre più incrementandosi negli anni, anche grazie al fatto che Williams fu direttore principale della Boston Pops Orchestra dal 1980 al 1993, rendendosi di fatto tra i maggiori fautori del ritorno dell’orchestra sinfonica negli studios hollywoodiani.
Oltre alle sue musiche — mirabilmente riarrangiate per la sala da concerto — Williams portò alla scoperta di partiture di compositori della generazione precedente, che furono i fondatori dell’Hollywood Sound, come ben spiega Emilio Audissino, autore dell’unico libro in lingua inglese su Williams, The Film Music of John Williams: Reviving Hollywood’s Classical Style. Molti di loro erano musicisti fuggiti dalla Germania nazista — pensiamo a uno su tutti, Erich Wolfgang Korngold. Tali autori registravano le loro partiture per il film e tutto finiva lì. Non erano previsti dischi con la colonna sonora e neppure possibilità di esecuzione pubblica.
Recentemente il Los Angeles Times, sul quale negli anni si sono susseguite diverse stroncature nei confronti di Williams sia come direttore che come compositore, ha intonato un peana riparatorio sui meriti di Williams, primo fra tutti quello di aver avvicinato generazioni di giovani al suono di un’orchestra sinfonica. Per cui quando si eseguono le sue musiche oggi assistiamo a concerti sold-out, come i tre di Berlino, che vedono riempire le sale da concerto non solo da parte degli abituali amanti della succitata musica “forte”, ma anche di schiere di i giovani e meno giovani che mai avevano varcato le porte di alcun teatro.
Williams poi — chi scrive lo può testimoniare in prima persona — è artista molto preciso e mai arrogante quando concerta in orchestra, e possiede, anche nella vita privata, un tratto caratteriale improntato su una dolcezza e su una umiltà rare. Quando ho suonato per lui con la violoncellista Cecilia Tsan proprio l’Elegy di cui sopra, prima ci ha coperti di complimenti, poi si è fatto serio e abbiamo lavorato sulla partitura, in cui tra l’altro ha modificato una nota nella parte del violoncello: “Cerco sempre di migliorare e questa nota deve cambiare”.
La sorte di John Williams può essere paragonata a quella di Giacomo Puccini o Sergej Rachmaninov, spesso strapazzati dalla critica ma amati dal pubblico. Anche solo sentendo il modo in cui i Berliner hanno eseguito Williams, non si può far altro che constatare, come lucidamente sostiene il violoncellista Delepelaire, che i musicisti di Hollywood del suo calibro (quali Steiner, Korngold, Herrmann e altri) sono i veri eredi del sinfonismo tardoromantico europeo dopo Mahler. Le standing ovation alla fine di ogni brano nella prima serata e in quelle successive hanno reso palpabile l’entusiasmo anche da parte del pubblico più âgé, commosso nel vedere il quasi novantenne compositore dirigere per due ore sul podio senza sedersi.
Il prossimo giugno Williams dirigerà un analogo concerto al Teatro alla Scala con la Filarmonica: niente male per un compositore nato in un sobborgo di Queens a New York, pianista con una propria Jazz Band, allievo di Rosina Lhévinne (maestra di Van Cliburn) alla blasonata Juilliard School di New York, poi passato a fare il pianista negli studi della Fox a Los Angeles (per sostenere economicamente la famiglia), per due sole estati allievo di composizione di Mario Castelnuovo-Tedesco e poi poco per volta compositore per alcuni telefilm, sino a diventare oggi uno dei compositori in assoluto più celebri e suonati da tutte le orchestra del mondo.
La consacrazione di Berlino — con gli oltre 15 minuti di applausi del pubblico a “sipario” calato nell’ultima serata — ci dice una volta di più che anche la musica di John Williams è musica “forte”.
Simone Pedroni
Crediti: Stephan Rabold