FILIDEI Sull’essere angeli flauto Mario Caroli ballerina Claudia Catarzi Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Andriy Yurkevych regia, coreografia, scene e costumi Virgilio Sieni
LEONCAVALLO Pagliacci F. Sartori, S. Gamberoni, S. Catana, M. Rosiello, M. Falcier, L. Romano, G. De Paoli; Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice, direttore Andriy Yurkevych regia, scene e luci Cristian Taraborrelli costumi Angela Buscemi
Genova, Teatro Carlo Felice, 17 ottobre 2021
L’annoso problema di trovare per Pagliacci una partnership alternativa a Cavalleria Rusticana ha trovato nell’apertura della stagione operistica autunnale del Carlo Felice una risposta ardita: il capolavoro di Leoncavallo infatti è stato preceduto non da un’opera, ma da una versione coreografata di Sull’essere angeli del compositore pisano Francesco Filidei, lavoro sinfonico per flauto e orchestra scritto originariamente nel 2016 e revisionato per l’occasione. Una composizione il cui titolo echeggia quello del Concerto per violino di Alban Berg (commosso omaggio alla figlia di Alma Mahler) e richiama l’omonima serie di fotografie di Francesca Woodman, la fotografa americana (ma di frequentazioni fiorentine) morta suicida nel 1981, appena ventiduenne; è inoltre dedicata a un’altra artista scomparsa prematuramente, la pianista Eleonora Kojucharov. Opera dunque consacrata a una riflessione sull’umana fragilità e sulla creatività spezzata, molto lontana dalla visceralità e dal gusto per il colore tipici di Pagliacci; anche dal punto di vista puramente sonoro la partitura di Filidei, che si potrebbe definire informale ed è giocata tutta sulle mezze tinte, rappresenta un orizzonte molto lontano da quello corrusco di Leoncavallo. In sede di presentazione è stato proposto un collegamento tra i due lavori nel nome della meditazione sulla morte e della precarietà delle figure femminili protagoniste di entrambi: un legame tuttavia un poco fragile, come in certo qual modo è stato ribadito dalla reazione del pubblico alla recita a cui ho assistito — caloroso per Pagliacci, estremamente tiepido per la partitura di Filidei, che propone peraltro un linguaggio musicale a cui il frequentatore medio della stagione operistica del Carlo Felice può essere poco avvezzo.
Sull’essere angeli (si può trovare facilmente su YouTube un’esecuzione della versione originale, alla Kölner Philharmonie) si pone in effetti in intima sintonia con le fotografie della Woodman, nelle quali il corpo dell’artista appare costruire una fragile fusione con l’ambiente: immerge infatti l’ascoltatore in un orizzonte sonoro diafano, cangiante, in cui il flauto e le sezioni dell’orchestra (in particolare le percussioni e i fiati) sono votati ad evocare sibili, suoni della natura, cantilene infantili, misteriosi richiami. Virgilio Sieni (che ha curato regia, coreografia, scene, costumi e luci) ha tradotto queste evocazioni in un allestimento spartano, dove grandi teli bianchi visualizzano soffi vitali, e oggetti quotidiani (una sedia, due specchi) vengono fruiti in maniera sibillina; sul palcoscenico il solista (il dedicatario Marco Caroli) incede come in un rituale, e la danzatrice Claudia Catarzi traduce la musica in una fisicità robusta ma frammentata. Come accennato, nell’accoglienza del pubblico ha prevalso la perplessità: l’impegno degli interpreti e dell’orchestra avrebbe meritato tuttavia maggior calore.
Pagliacci è stato invece messo in scena da Christian Taraborrelli con l’ausilio della «realtà aumentata»: in pratica quanto avviene in scena viene arricchito in una proiezione soprastante di ulteriori elementi ambientali (nel primo atto, ad esempio, la rustica e spoglia ambientazione del palcoscenico diventa un bosco, che prende fuoco rispecchiando il furore di Canio), al fine di rendere «visibili i sogni, i pensieri, le passioni, i tormenti dell’anima dei protagonisti della storia». Una soluzione che però non è sembrata particolarmente convincente, soprattutto nel secondo atto, dove andava completamente perduta l’idea di teatro nel teatro: aumentando peraltro lo straniamento dovuto al fatto che – ennesima variazione sulle normative anticovid – il coro, così presente anche fisicamente nell’opera, veniva schierato nelle prime otto file del teatro, cantando rivolto verso il palcoscenico. Inoltre il teorico arricchimento visivo (davvero efficace soltanto a tratti: ad esempio nella visionarietà surreale della Serenata di Arlecchino, glam e astrale) veniva disturbato da un leggero sfasamento temporale, per cui nella proiezione i protagonisti risultavano cantare leggermente fuori tempo rispetto a quanto si ascoltava… I lettori potranno valutare comunque l’effetto complessivo dello spettacolo il 16 dicembre, quando verrà trasmesso su Rai5.
Se a Canio e Tonio Leoncavallo ha riservato i «numeri» più popolari dell’opera, non v’è dubbio che sia quella di Nedda la psicologia più complessa. Nei pochi minuti che trascorrono dall’Andante con moto «Qual fiamma avea nel guardo» all’inizio del Finale I, la protagonista passa rapidamente dalla fosca rimuginazione alla rammemorazione infantile e speranzosa della Ballatella, all’indignazione e al livore nei confronti di Tonio, alla tenerezza e alla passione per Silvio. Interprete sempre sensibile e originale, Serena Gamberoni trasmette queste tonalità con una sincerità non comune, tradotta in molte inflessioni da ricordarsi: dall’esultanza di «Vanno laggiù» al parlato quasi esausto di «lurido» all’abbandono di «Sì… Baciami!». Sicuramente in un teatro di dimensioni meno rilevanti la sua prestazione vocale acquisirebbe maggiore disinvoltura, togliendo pressione al suo organo non potentissimo; né si può tacere il fatto che un registro grave più ampio le consentirebbe un fraseggio più robusto nei momenti maggiormente accesi. Tuttavia già in queste condizioni la Nedda della Gamberoni, perfetta anche scenicamente, si è rivelata una creazione fresca e coinvolgente.
Più convenzionale il ritratto di Canio offerto da Fabio Sartori, un protagonista sofferente, meno temibile dell’usato, che acquisiva impatto e guadagnava empatia in virtù dello squillo del registro acuto, già dalla sortita e dal primo adombramento («com’è ver che vi parlo!»). Il nitore del La bemolle non scritto su «voi» è stato anche il primo momento in cui ha conquistato la nostra attenzione Sebastian Catana, che non si è certo giovato dell’impostazione registica un po’ troppo dimessa del Prologo; il baritono romeno ha però gradualmente disegnato un Tonio efficace, non troppo deforme e non troppo calcato, così come Matteo Falcier ha proposto un buon Peppe/Arlecchino, in linea con la tradizione. Carente di morbidezza invece è apparso il Silvio di Marcello Rosiello, le cui lacune nella modulazione della voce sono apparse ancor più evidenti in un Andante appassionato che Andriy Yurkevych ha isolato con infinita soffusa dolcezza. Il direttore ucraino in effetti ha fornito una visione piuttosto convincente del lavoro di Leoncavallo, illuminata fin dalle battute di introduzione orchestrale dalla spiccata cantabilità di singole frasi e momenti, che ha poi sempre caratterizzato i momenti più lirici dell’opera, Intermezzo compreso.
Roberto Brusotti