RACHMANINOV Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30 STRAVINSKI Petruška pianoforte Vadym Kholodenko Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, direttore Aziz Shokhakimov
Torino, Auditorium Rai Arturo Toscanini, 4 novembre 2021
Pochi anni separano il leggendario Terzo concerto di Sergej Rachmaninov da Petruška, tra i più celebri esiti che segnarono la collaborazione tra Stravinski e Djagilev; se non fosse però che la versione proposta nell’occasione di cui ci accingiamo a parlare è quella che lo stesso compositore russo avrebbe rielaborato trentacinque anni più tardi, con differenze in sede di strumentazione (un organico ora più snello, ma anche un maggior rilievo dato ad alcuni strumenti) ma non solo. Protagonisti delle due serate Rai della scorsa settimana sono stati due giovani musicisti approdati in Italia dall’est, segnatamente il direttore d’orchestra uzbeko Aziz Shokhakimov (classe 1988, recentemente nominato direttore musicale dell’Orchestra Filarmonica di Strasburgo) e il pianista ucraino Vadym Kholodenko (nato nell’86 e medaglia d’oro nella quattordicesima edizione del prestigioso Van Cliburn, concorso che tra i suoi vincitori annovera nientemeno che un giovanissimo Radu Lupu).
Il giovane direttore d’orchestra uzbeko torna a dirigere il concerto di Rachmaninov in questa sala dopo tre anni e mezzo. Proprio la sua esecuzione (nella precedente occasione in coppia col pianista coreano Seong-Jin Cho) è stata l’ultima che si è potuta apprezzare nell’auditorium di via Rossini, sette anni dopo quella, memorabile, di Yuja Wang e Christian Arming. Insieme a Shokhakimov, quindi, Kholodenko, che invece sul palcoscenico Rai era al suo debutto. Iniziamo subito a dire che, a dispetto di alcune scelte interpretative che ci hanno lasciato dubbiosi, il pianista ucraino ha dato prova di essere un artista vero, un musicista sensibile e volto in ogni caso a offrire una propria lettura di questa musica tanto nota ed eseguita. Il celebre, popolareggiante tema cantabile del concerto viene eseguito da Kholodenko con introspezione e densità di suono, lasciando il campo a un’orchestra che raccoglie a sua volta il tema con medesima intensità e intenzione, seppur in una dimensione meno intimistica. L’inizio persuade, il seguito fa (talvolta) sorgere qualche interrogativo, anche se tuttavia per onestà dobbiamo dire che la posizione piuttosto decentrata della nostra postazione rispetto al pianoforte non ci ha permesso probabilmente di apprezzare tutto al meglio: ma quei bassi (pianistici) a volte non pervenuti si… sentivano eccome, parimenti ad altre voci (interne ad esempio) che con maggior rilievo avrebbero potuto mettere maggiormente in luce il dialogo tra parte pianistica e le varie sezioni dell’orchestra. Qualche tempo forse eccessivamente ritenuto, un’idea della direzione della frase non sempre chiarissima, allo stesso tempo però capace di mettere in luce una grande varietà di colori, di sguinzagliare una notevolissima plasticità timbrica frutto di una tecnica e un controllo pianistico molto ferrati: pensiamo, ad esempio, ad alcuni “pianissimo” davvero di grande effetto, come in una delle sezioni centrali del primo movimento, quando il pianoforte è volto ad accompagnare la ripresa del tema affidata al flauto prima, all’oboe poi, quindi infine al corno. Momento magico, riuscitissimo, “momento della perfetta illusione”, come avrebbe detto Stendhal, per cui val la pena entrare in teatro. Insomma, che il nostro Kholodenko sia un pianista dotato, non ci piove; che egli sia tuttavia ancora alla ricerca di una direzione (forse anche estetica, quindi di una maturazione intellettuale) ci pare di poterlo affermare con altrettanta forza, almeno per quanto abbiamo avuto modo di ascoltare.
Due i bis concessi alle insistenze del pubblico (almeno nella prima delle due serate in programma): il mozartiano Rondò in re maggiore K 485, ben eseguito ancorché – absit iniuria verbis – non esattamente secondo lo stile dell’epoca, e a seguire un non meglio identificato brano di un autore presumibilmente di primo Novecento (qualcuno vocifera Šostakovič. O forse Bartók?).
E cosa dire della prova del direttore d’orchestra uzbeko Shokhakimov, in questa serata che per il suo repertorio relativamente mainstream sembrava votata a un clima di assoluto trionfo? Mentre nel concerto di Rachmaninov ci è parso piuttosto a suo agio, nel brano stravinskiano talvolta ci è parso più sorridente e di buona presenza che carismatico, con l’impressione che fosse un po’ troppo in balia della direzione intrapresa dall’orchestra. Anch’egli è certamente dotato, come è evidente e come in ogni caso non ha mancato di mostrare in diverse occasioni; ci piacerebbe tuttavia, memori di questa serata, poterlo riascoltare nuovamente alle prese con Petruška (o repertorio in qualche modo affine) tra qualche anno, certi che non mancheranno occasioni in tal senso.
Marco Testa