BEETHOVEN Sinfonia n. 9 soprano Maida Hundeling mezzosoprano Anke Vondung tenore Vincent Wolfsteiner basso Thomas Johannes Mayer Orchestra e Corodel Teatro La Fenice. direttore Myung-whun Chung
Venezia, Teatro La Fenice, 4 dicembre 2021
A completamento del percorso avviato con Fidelio, che ha inaugurato la stagione lirica della Fenice il 20 Novembre, la nona sinfonia di Beethoven, ancora con la direzione di Myung-whun Chung, ha aperto quella sinfonica, riaccendendo le luci sugli ideali di riconciliazione e aspirazione collettiva alla libertà, tema fortemente simbolico e contro ogni individualismo in questo difficile periodo afflitto dalla cappa della pandemia.
Conosciamo bene la retorica sulla Nona sinfonia – sempre una sfida per tutti, anche per chi ne deve scrivere – capolavoro di riconosciuto auspicio in tempi duri e difficili, che da un lato contribuisce a rafforzare la ritualità in cui celebrare idoli e ideali culturali immortali, dall’altro pone la figura di Beethoven come emblema dell’artista al centro della società per farsene portavoce, come se intorno a quegli ideali, in momenti di crisi, la riunione collettiva rappresentasse un processo indispensabile per sublimare tensioni e aspettative, e non solo per risollevare gli animi.
Ecco quindi che il bis della coda del finale voluto da Chung sotto gli applausi scroscianti ha rotto inaspettatamente la “regola” storica per cui da decenni non se ne sentivano ai concerti dell’Orchestra della Fenice, un gesto che nello scardinare abitudini consolidate affermava anche un’esigenza di cambiamento e di risoluzione nel disordine da cui questa società e il suo mondo dello spettacolo sono trascinati da quasi due anni.
Ripartire quindi dalla Nona, che con Fidelio accentua il solco in cui ribadire l’aspirazione a una fratellanza universale, ha richiamato la sinfonia già diretta da Chung nel 2020, in una Fenice allora a porte chiuse (disponibile su YouTube): la condivisione col pubblico è di fatto una necessità imprescindibile per la comunicazione proprio per questa partitura, riportandone finalmente ora in primo piano i significati autentici.
Uscire dalla ritualizzazione di capolavori immortali è pure un problema e un obiettivo per Chung, che evitava ogni austerità pur non accogliendo i contributi di letture storicizzate e filologiche (trasparenza, leggerezza, parsimonia nel vibrato) ma insistendo invece su una coerenza drammaturgica che assecondasse contrasti infuocati, talora ispidi, guardando meno ai percorsi precedenti delle altre otto sinfonie, e di più all’Ottocento inoltrato.
Fra alcune discontinuità in certe scelte di tempo e nella tenuta della tensione e della concentrazione, emergevano un severo incipit, con una coda del primo movimento al limite della sostenibilità per la lentezza, mentre spiccava spedito e brillante l’«Alla marcia» del quarto, che evitava solennità distraenti. Proprio questa sezione, colta nella sua singolare dimensione grottesca, con la metamorfosi transitoria del celebre tema (che progressivamente si trasfigura da canzoncina infantile a inno) appariva come una sfuggente banda di passaggio, sorta di premonizione mahleriana che come una visione straniante scardina l’altisonante coralità dominante.
Del resto, le anticipazioni beethoveniane si spingono profeticamente verso la modernità del Novecento secondo una peculiare destrutturazione delle forme: si pensi anche alle pannellature nell’intercedere degli episodi dell’ultimo movimento, dove le variazioni del tema nelle diverse sezioni si accompagnano a strumentazioni ardite, modulazioni inattese, articolazioni contrappuntistiche frammiste a coralità quasi sacre o allusioni operistiche del quartetto vocale, o alle ossessive reiterazioni motiviche nel trio del secondo movimento. Secondo una propria dimensione di profonda riflessione interiore, Chung assecondava il concetto beethoveniano di trasformazione continua attraverso lo struggimento che conduce alla liberazione dagli schemi e alla comunione. Sceglieva una dimensione imponente per il primo movimento, come un’estesa introduzione, a tratti troppo imbrigliata in un’immobilità statuaria. Nello scherzo scatenava una danza bacchica di mirabile coerenza, pungente nella sua accesa aggressività ritmica. Statico ma non estatico l’Adagio, in cui il maestro coreano conduceva meno e lasciava suonare molto. Prediligeva poi un’enfatica cantabilità per il recitativo di violoncelli e bassi in apertura del finale, cogliendo invece l’energia cinetica delle strutture contrappuntistiche vissute nella loro componente propulsiva, in quanto elementi portanti del processo dialettico evolutivo beethoveniano. Le mascherine del coro – divenute triste simbolo di restrizioni protettive imprescindibili – opacizzavano purtroppo le emissioni vocali, assumendo come stigmate una valenza teatrale rispetto agli ideali declamati, mentre il quartetto di solisti mostrava un ordinario equilibrio. Seguendo una lettura autorevole, traghettatore e demiurgo, Chung conduceva con carisma trascinante una crescente concitazione generale nell’epilogo, riuscendo a convincerci nel prevedibile tripudio di applausi che ancora una volta resta sempre Beethoven a lasciarci un nuovo barlume di speranza.
Mirko Schipilliti