“Omaggio a Caruso” tenore Javier Camarena Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Riccardo Frizza
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 22 dicembre 2021
Era molto atteso l’Omaggio ad Enrico Caruso, nel centenario della morte, che l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha messo in programma quasi alla fine di questo problematico 2021. Atteso sia per l’aura mitica che da sempre circonda il nome del grande napoletano, sia per la presenza di Javier Camarena, uno dei tenori oggi mondialmente più apprezzati, sia perché un focolaio pandemico si era insinuato nell’orchestra durante la recente tournée in Germania, facendo saltare gli ultimi tre-quattro concerti: e questo Omaggio era anche una rentrée dell’intera compagine ceciliana ormai in ottima salute.
Non tutte le mete però sono state raggiunte. Impeccabile senz’altro l’articolazione del programma: puntualmente ispirata dal repertorio del Caruso più giovane, ma anche con alcuni di quei ruoli (emblematico quello del Duca di Mantova del Rigoletto) da lui mantenuti fino agli ultimi anni. Ed era assai calzante, oltre che estremamente gradevole, l’intarsio classico di brani sinfonici (ouverture, intermezzi, suite, danze) tratti da opere che comunque Caruso ebbe a praticare. Solo che el muy famoso señor Camarena si è presentato alla bisogna dell’evocazione di un mito se ve ne furono – come dire? – in ciabatte, ossia non in voce e mal preparato. Lo si è percepito subito con l’aria “Spirto gentil” da La favorita, ove già raucedini e note incerte abbondavano. S’è continuato con un “Salut demeure” dal Faust di Gounod in carenza di fiato e d’intonazione ed è proseguito con un’esecuzione di “Je crois entendre encore” da I pescatori di perle che più qualsiasi non era pensabile. Appena decorosi sia “La donna è mobile”, sia “Che gelida manina”, ove le qualità indubbiamente notevoli di Camarena son venute fuori: anche se abbiamo il sospetto che la voce nei centri non sia perfettamente immascherata e per questo risulti assai più sorda che nello sfolgorante settore acuto. Poi La traviata: se in “De’ miei bollenti spiriti” non s’andava oltre la correttezza (peraltro abbondante di note sporche), in “Oh mio rimorso! Oh infamia!” il Nostro ha perso il filo della musica è c’è voluta solo la presenza di spirito di Frizza per salvare la situazione. Seguivano “M’apparì” dalla Martha (forse la cosa migliore della serata) e un “Lamento di Federico” dall’Arlesiana buono, ma assai plateale. Bis e tris, prevedibilmente: culminanti in una versione di “O sole mio” che più arbitraria e dozzinale non avevamo udita nemmeno nei concertoni di pop-opera. Ora, se un messaggio imperituro è stato lasciato ai posteri da Enrico Caruso, esso è sicuramente rinvenibile in una voce fenomenale, sicuramente in qualità d’interprete eccelse, ma anche e soprattutto in un rigore quasi maniacale, in un anelito alla perfezione che ci sembra esser stato il dato più assente dalla serata qui in parola.
Non vorremmo per contro dir male (come spesso usa) di Riccardo Frizza. Il cui onesto progress di carriera (ci si parlava di lui fin dai tempi della scuola con Serembe e dei corsi alla Chigiana) merita oggi qualche plauso: senza pensarsi Toscanini, senza mai far passi men che prudenti, egli ha saputo ritagliarsi un suo spazio, un suo ruolo, una sua affermazione nel mondo della musica e in specie in quello dell’opera. Guardandolo dirigere durante l’Omaggio a Carusocon un gesto non straordinario, forse artigianale, ma efficace, abbiamo percepito un mestiere orchestrale e una capacità d’accompagnare le voci d’antica scuola italiana. Abbiamo anche percepito un appassionato slancio verso il repertorio che dirige: certo non c’erano dinamiche particolarmente raffinate, il suono è complessivamente gradevole, ma sempre un po’ spesso. Però con un’orchestra in stato di grazia com’era in tal occasione quella ceciliana (primo oboe e primo flauto di sogno), son venute fuori una Suite da Carmen vibrante e sanguigna, ma anche pregevole negli slarghi lirici; un Preludio alla Fanciulla del West e un Intermezzo dei Pagliacci di intensa drammaticità, nonché all’inizio, un’Ouverture da La favorita scattante e sonora. Il valzer dal Faust e la Danza delle ore dalla Gioconda mancavano per contro di leggerezza e di nonchalance, ma avevano un’allure assai incalzante e alla fin fine più che accettabile.
Pur nell’attuale situazione epidemica, la Sala Santa Cecilia era assai affollata (soprattutto di studenti dell’Estremo Oriente, in verità) e plaudentissima, forse sin oltre il dovuto.
Maurizio Modugno