BEETHOVEN Quartetti per archi op. 18, n. 6 e op. 130, con il ripristino della Grande Fuga op. 133 Quartetto Adorno
Catania, Teatro Massimo Bellini, 8 febbraio 2022
Il Quartetto Adorno si era già esibito con successo al Teatro Massimo Bellini di Catania all’inizio di ottobre del 2019 ed anche in quell’occasione si era presentato con un programma beethoveniano comprendente i Quartetti op. 18 n. 3, op. 95 e op. 59 n. 2. Si trattava del primo di una serie di appuntamenti – da svolgere nelle successive stagioni anche in altre sedi concertistiche italiane (Lucca, Vercelli, Cagliari, Urbino, Venezia) – che prevedeva l’esecuzione dell’integrale dei sedici quartetti di Beethoven. L’emergenza Covid ha frenato e poi interrotto il percorso di questo progetto. Il concerto che abbiamo ascoltato nel febbraio scorso al Bellini di Catania, valeva comunque quale recupero della stagione 2020, per la quale era stato a suo tempo programmato. Diciamo subito che la crescita artistica maturata dal Quartetto Adorno negli ultimi due anni ci è sembrata impressionante. Edoardo Zosi e Liù Pellicciari violini, Benedetta Bucci viola, Stefano Cerrato violoncello, si sono formati alla Scuola di Fiesole e suonano insieme dal 2015; un tempo relativamente breve, dunque, rispetto a quello in genere necessario ad un quartetto d’archi per raggiungere un eccellente affiatamento, ma loro dimostrano di aver già raggiunto una maturità interpretativa che il giudizio di un’autorevole collega – la violista Geraldine Walther, per tre lustri componente del prestigioso Takács Quartet – esprime compiutamente: «They play with one mind, beauty of sound, intonation, precision and wonderful musical ideas and expression». Sono proprio queste meravigliose idee musicali, che ci hanno affascinato: prima, durante la limpida esecuzione del Quartetto in si bemolle maggiore, op. 18 n. 5, in cui risaltavano la bellezza del suono, la precisione dell’intonazione, la perfetta sincronia degli attacchi; e dopo, mentre i giovani musicisti affrontavano con smagliante sicurezza e concentrazione i primi cinque movimenti del monumentale Quartetto in si bemolle maggiore, op. 130, che nella sua versione definitiva ne prevede un sesto, in tempo Allegro. Il programma di sala del nostro concerto annunciava invece il ripristino del finale originale, ovvero la altrettanto monumentale Grande Fuga, opera tra le più ardue e complesse composte da Beethoven, che da sola occupa quasi ottocento battute, prolungando di circa venti minuti la durata della composizione. Era accaduto che Beethoven, dopo la prima esecuzione dell’op.130, avvenuta a Vienna il 21 marzo 1826, amareggiato dalle numerose critiche ricevute per la lunghezza e per le astrusità linguistiche del brano, ma anche a seguito delle reiterate insistenze del suo editore viennese Matthias Artaria, il quale – non senza qualche ragione – temeva di non riuscire a vendere che poche copie di un quartetto della spropositata durata di circa un’ora, si era infine convinto ad espungere la Groβe Fugue dall’op.130, sostituendola nell’autunno successivo con un brioso Allegro, ben più breve e di tutt’altro catterere rispetto alla sublime concentrazione della Cavatina che lo precede. Il Quartetto op.130, nella sua nuova e definitiva versione, che è quella tuttora in repertorio, fu eseguito il 22 aprile 1827. Nello stesso anno Artaria pubblicò a parte la Grande Fuga, come op.133, oltre ad una non entusiasmante trascrizione per pianoforte a quattro mani (op.134), riveduta dallo stesso Beethoven. Ebbene, il Qartetto Adorno ha deciso, con un’audacia pari alla piena consapevolezza dei propri mezzi tecnici ed espressivi, di ripristinare, appunto, il primo finale dell’op. 130, quella Groβe Fuge dai più ritenuta il pezzo contrappuntistico più difficile dell’intero repertorio per quartetto d’archi; e a questo punto è avvenuto ciò che anche i grandi interpreti sono in grado di ottenere solo in alcune occasioni durante un concerto, vale a dire la completa attenzione dell’intero uditorio: nel silenzio più assoluto si percepiva come il pubblico si sentisse via via coinvolto e addirittura irretito dall’interpretazione resa con stupefacente concentrazione da quei giovani musicisti: il linguaggio astruso dell’ultimo Beethoven, così difficile da intendere, essendo la sua essenza spirituale, trascendentale, nel senso schellinghiano del termine, con le sue frasi ora energiche ed imperiose, ora oscure e frammentate in percorsi la cui logica interna rischia di sfuggire ancora oggi anche alle più accurate analisi formali, ha svelato a tutti i suoi segreti, si è manifestato in una dimensione di comprensibile bellezza. Un lunghissimo, caloroso applauso ha infine festeggiato la prova di questo gruppo strumentale italiano, che ha scelto il proprio nome in omaggio all’illustre filosofo e musicologo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno, impostosi nella seconda metà del secolo scorso quale lucido ed intransigente ideologo – da una prospettiva storico-sociologica di derivazione marxiana – di un pensiero critico applicato all’estetica ed in particolare alla musica. Proprio nella musica da camera Adorno intravide un mezzo per salvaguardare e perpetuare i valori di umanità e di bellezza che appartengono non solo della musica, ma all’intera cultura occidentale. «Non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze», afferma il filosofo; e il Quartetto Adorno ha assunto questo suo pensiero quale proprio motto, che ne guida il severo impegno quotidiano di studio e di ricerca.
Dario Miozzi