CILEA Adriana LecouvreurF. De Tommaso, A. Spina, C. Bosi, A. Corbelli, F. Pittari, C. Finucci, P. Nevi, M. Agresta, J. Kutasi, C. Sala, S. Stoyanova; Orchestra e coro del Teatro alla Scala direttore Giampaolo Bisanti maestro del coro Alberto Malazzi regia David McVicar (ripresa da Justin West) scene Charles Edwards costumi Brigitte Riffenstuel luci Adam Silverman (riprese da Marco Filbeck)
Milano, Teatro alla Scala, 10 marzo 2022
Un’Adriana Lecouvreur così tormentata, come quella che si è vista in queste settimane alla Scala, la si ricorderà a lungo. Prevista nel ruolo del titolo Anna Netrebko, ritiratasi per le note vicende legate alla guerra di Putin in Ucraina, le è subentrata Maria Agresta, che si è fatta carico di tutte le recite. Ritiratisi per indisposizione dopo la prima anche Anita Rachvelishvili nel ruolo della Principessa di Bouillon e il suo “doppio” Elena Zhidkova, anche sul fronte maschile le cose non sono andate meglio. Il tenore inglese di origine italiane Freddie De Tommaso, debuttante alla Scala, indisposto e alla fine positivo al Covid, è riuscito a portare a termine solo l’ultima delle tre recite previste, mentre Yusif Eyvazov ha cantato tutte le altre.
Alla recita cui abbiamo assistito le cose stavano così: Agresta era Adriana, il mezzosoprano rumeno Judit Kutasi la Principessa, il veterano Alessandro Corbelli quale Michonnet, Freddie De Tommaso, redivivo, nella parte di Maurizio. Un debutto davvero tormentato per quest’ultimo che, dopo aver cantato nei primi due atti, nell’intervallo fa annunciare dal sovrintendente Meyer un brusco calo di pressione che avrebbe potuto compromettere la seconda parte della recita. Fortunatamente arriva a termine e complessivamente in forma (il giorno dopo si veniva a sapere la positività al Covid).
L’allestimento era quello di David McVicar, ripreso da Justin Way, portato in scena nel 2010 al Covent Garden, frutto della coproduzione con il Liceu di Barcellona, la Wiener Staatsoper, l’Opéra de Paris e la San Francisco Opera. Un’impostazione tradizionale, ambientata, come da libretto, a Parigi nel 1730 nel foyer della Comédie-Française e nel retropalco del teatro. Domina la scena l’imponente riproduzione lignea del teatro stesso, di cui sono a vista le attrezzerie, i fondali mobili e i camerini degli attori. Un’atmosfera fatta di ironia, di sottili e sensuali ammiccamenti, personaggi ben sbalzati sono i non pochi meriti di questa tradizionalissima versione. Piace molto al pubblico, e i cantanti sono a loro perfetto agio. Bellissimi e assai curati i costumi d’epoca di Brigitte Reiffenstuel.
La parte vocale ha potuto contare sulla prova maiuscola di Maria Agresta che, consapevole di non potersi avvalere di doti da tragédienne, punta a ritrarre una giovane innamorata, devota più al suo Maurizio che alla causa del teatro. Sono infatti un filo deboli le pagine in cui è in scena l’Adriana grande attrice, dove è scarsa la capacità di scolpire la parola (“Del sultano Amuratte m’arrendo all’imper” e il monologo di Fedra “Giusto Cielo! Che feci in tal giorno?”), mentre immacolata è la linea vocale dei momenti più lirici e da manuale il legato della romanza “Io son l’umile ancella”. Commossi, e giustamente premiati da grandi applausi, l’aria “Poveri fiori” e il finale. La voce è luminosissima all’acuto, sonora nei centri e sempre timbrata anche nella regione grave.
Non agli stessi livelli il ventottenne tenore Freddie De Tommaso: si percepivano chiaramente l’ansia da prestazione e l’emozione per un debutto importante, che si sono fatti sentire non tanto nella prestazione vocale — davvero bella la qualità della voce e la sicurezza tecnica — quanto nella recitazione impacciata e generica, più adatta ad un Nemorino di campagna che al Principe di Sassonia. Ottime le arie, un terzo atto affrontato con superficialità, commosso invece il finale cui il pubblico scaligero ha tributato un gran successo.
Altro punto di forza della recita la Principessa di Bouillon di Judit Kutasi. Voce densa e corposa, tratteggia una rivale volitiva e perfida, molto credibile in scena, imponendosi fin dalla sua aria “Acerba voluttà, dolce tortura” per il gusto sorvegliato con cui conduce la parte. Austera, nobile, ma anche perfida nel portare a compimento la sua vendetta.
Se poco c’è da dire sulla complessiva omogeneità delle parti di fianco, non si finirà mai di tessere elogi per un artista tra i massimi del teatro lirico: un veterano come Alessandro Corbelli, in grado a settant’anni di dare lezioni di teatro e di insuperabile fraseggio nella parte, con lui divenuta quasi protagonistica, di Michonnet. Non un vecchio bonario e sopra le righe, ma un uomo credibile nel suo amore per la giovane Adriana, che fa sorridere di un riso amaro e che arriva a commuovere. Davvero da ricordare, come ennesimo dono uscito dalla fantasia e dal carisma di questo grande cantante.
A ricordarci che alla fine si tratta di una tragedia d’amore e non solo di un prezioso acquerello settecentesco è la bacchetta di Giampaolo Bisanti, al suo debutto scaligero: scattante, piena di fremiti e appassionata la sua direzione, piena di sottili sfumature, trascolorante tra densi turgori e fragili atmosfere estenuate. Una prova convincente, assecondata da un’orchestra in stato di grazia.
Stefano Pagliantini
[sul numero di aprile di MUSICA, la recensione della prima recita]