DVOŘÁK Sinfonia n.9 in mi minore op. 95 “Dal nuovo mondo” JANÀČEK Messa glagolitica K. Kněžíková, J. Balážová, R. Samek, J. Benci; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Jakub Hrůša
Roma, Parco della musica, Sala Santa Cecilia, venerdì 10 giugno 2022
Già previsto nella scorsa stagione e rinviato per la pandemia, il concerto ascoltato a Santa Cecilia sotto la bacchetta del suo direttore ospite principale Jakub Hrůša, aveva non pochi e non casuali motivi d’interesse. Hrůša, lo dicemmo in occasione della sua memorabile esecuzione della Seconda sinfonia di Gustav Mahler a inizio d’anno, è da considerarsi personalità direttoriale fra le maggiori della sua generazione e il lavoro ch’egli attualmente compie con i Bamberger Symphonyker e i CD (con essi e con altri) incisi ne sono dimostrazione inconfutabile. È ovvio poi che un programma come quello ora proposto a Roma fosse ideale per un musicista nato a Brno e formatosi a Praga. Il rischio attuale che l’Orchestra accademica tuttavia propone ai direttori che passano sul suo podio è sottile e insidioso: quello cioè d’ aver di fronte una compagine di qualità eccelse (quale essa è come non mai) e dunque di subirne una sorta di fascinazione, di farsene ammaliare sul piano sonoro, ben sapendo che l’esito sarà comunque straordinario e memorabile quanto a potenza di decibel e d’emozioni. A tal “fonicismo” (ci si passi il vocabolo) talor fine a sé stesso, sembrano in verità oggi adeguarsi (non solo a Roma, beninteso) numerosi nomi, che vanno da Kirill Petrenko in giù, mentre ad un Christian Thielemann (e talora a un Daniele Gatti) fa capo un universo che, mai a detrimento del suono, di esso cerca radici più profonde e complesse. Tutto ciò per dire che la Sinfonia “Dal nuovo mondo” diretta da Hrůša è stata uno spettacolare risultato sonoro, ma forse della partitura di Dvorak non ha colto l’intero possibile ventaglio significativo. Vero è che la prospettiva della lettura di Hrůša era e voleva restare qui ed ora, ossia “nazionale”, senza porre in causa un altrove onde misurare distanze e percorsi. Il “vecchio mondo”, ovvero tutta l’indomita forza della terra boema, i fremiti ancestrali che la scuotono, i brandelli di danza e di sabba che ne fanno la memoria, il suolo stesso nella sua rude opulenza, erano qui i protagonisti. Spazio per il lirismo, per le nostalgie, i rimpianti, sinanche per certe dialettiche tematiche tra America ed Europa, non ve n’è stato che in misura assai ridotta. Sì che alla fine – a far raffronti con taluni modelli d’altra e intensa e ben motivata effusione lirica – s’è avuta una Nona di Dvořák tendenzialmente violenta e barbarica, gettata verso un futuro inquieto più che rivolta verso un malioso passato. Interessante e parziale, senz’altro. E con quel plusvalore costante d’una resa virtuosistica abbagliante dall’inizio alla fine. La Messa glagolitica è da sempre annoverata tra i capolavori di Leoš Janáček. Piace molto a certi critici discettare sulle opere religiose scritte da agnostici, atei, non credenti e dirle “laiche”, “panteiste”, erotiche, dissacratorie o simili. Risponde più a loro stessi che ai fatti: i quali sono null’altro che lo sguardo attento e perspicace d’un genio sul sacro, sul pensiero o sulla speranza di Dio, su una ritualità pubblica o privata, su un’azione celebrativa peculiare. La Messa glagolitica è un omaggio alle antiche liturgie in lingua slava e un confronto col numinoso che non è privo di timore, di rispetto, d’orgoglio nazionale. Certo, sta a Haydn come Chagall sta a Raffaello; certo è una sorta di singolare e sghembo ponte fra Bruckner e Poulenc, certo ha un’invenzione e una stilizzazione che a tratti hanno dell’incantatorio, ma non vi va cercato altro da ciò che c’è: ossia musica sacra e non enunciazione ideologica. Rapida, aggressiva, tutta per spigoli ed ellissi la lettura datane da Hrůša: senza magari quel tempo per l’ascesi o almeno per la riflessione che gli Ančerl, i Kubelik, i von Matačić volevano e sapevano reperirvi. Solisti “di madrelingua”, orchestra e coro semplicemente perfetti. E la Sala Santa Cecilia piena e acclamante, nonostante il caldo crudelissimo.
Maurizio Modugno
©Accademia-Nazionale di Santa Cecilia / Musacchio-Ianniello