Musiche di Toscanini, Sgambati, Wagner, Bülow, Pizzetti, Respighi, Martucci, Castelnuovo-Tedesco, Malipiero, Mix, Berio; mezzosoprano Anna Bonitatibus pianoforte Adele D’Aronzo recitante Massimo Venturiello
Parma, Auditorium del Carmine, 17 giugno
Chissà se Anna Bonitatibus realizzando la sua sontuosa performance – entusiasmante nel canto sempre bellissimo dell’artista, con la sua voce ricca, armonicissima, flessuosa, la dizione a scandire un fraseggio articolato e intelligentissimo, non solo nell’attenzione della parola ma anche al modo di accentarla secondo lo stile combinato della poesia e della musica (non sempre coetanei, come mostrano i pezzi di Arturo e di Castelnuovo), sul quale costruire il microcosmo della romanza e l’arcata complessiva del concerto – chissà, dicevo, se la straordinaria cantante si è resa conto di abbozzare un ritratto della cultura italiana di deprimente povertà intellettuale (ahimè, una fotografia di fin troppo realistica fedeltà).
È vero, Toscanini – che in gioventù non aveva mancato d’indulgere alla sua vena compositiva (oggi sono in edizione a stampa una ventina di romanze da camera) – per intonare il suo canto di Mignon, le note del quale paiono uscite per direttissima dalla penna di Catalani, dimostra attenzione all’attualità culturale della Milano scapigliata rivolgendosi a un poeta di sàpidi umori, quale Antonio Ghislanzoni, e in altri casi – vedi Autunno, su parole di Felice Cavallotti, ex garibaldino, fervente democratico e animatore della prima Sinistra estrema – rende omaggio ai suoi ideali politici, confermando un fare musica non distratto dalla realtà, culturale e quotidiana, della vita. Ciò che, comunque, non rende né Ghislanzoni, né tantomeno il “carducciano” Cavallotti poeti del livello di uno Heine, di un Goethe, di un Mörike, di Verlaine o Baudelaire, nei quali pescavano i maestri tedeschi e francesi. E nei quali pescò pure Giovanni Sgambati pei Quattro Canti op. 14 ove, accanto a due immedicabili testi italiani (il primo non m’è riuscito individuarlo – il programma di sala del concerto era particolarmente sparagnino e non forniva né i testi cantati né gli autori delle poesie –, il secondo era un di quegli antichi canti toscani allora di moda), si trova un infelicissimo Heine, ridotto da un a me ignoto traduttore nella stessa miserrima condizione nella quale era stato conciato Goethe dal Balestra (c’inciampò perfino Verdi, col suo “Vasel sul finestrino”!): lo confondi col De Renzis, il Martini Ferdinando, l’Ugo Pesci, un Cognetti, poetucoli da salottino piccolo-piccolo borghese pròdighi ai Tosti. La serie dei canti chiude con un più dignitoso (anche perché mantenuto nell’originale francese) Sully-Prudhomme. Risultato: Sgambati scrive quattro pezzulli graziosi, di limpida definizione musicale, che però non distingueresti dai cammei normalmente cesellati dal – bravissimo ma inarrestabile come una catena di montaggio – Paolo Tosti. Il che equivale a dire che, se il Lied si rifinisce in arte, la romanza italiana declina in canzonetta (“Grazie dei fior…”)
Va anche detta una cosa, che non è del tutto secondaria: ossia che i maggiori poeti italiani dell’Ottocento non scrivevano versi adatti ai musicisti del loro tempo. Foscolo non “canta” come Rossini (come si potrebbe “colorare” i Sepolcri o le Grazie?), Leopardi non funziona con Bellini (salvo che nell’annacquamento del leopardiano – e foscoliano – Pepoli, librettista valoroso dei Puritani) — un po’ di più, forse, il recanatese funzionerebbe con Donizetti, che infatti ebbe almeno un istante in mente d’inserire un vero verso leopardiano nel Finale della Lucia: “Nostre misere menti e nostre salme / son disgiunte in eterno”, dal Sogno nei Canti); né il Manzoni avrebbe potuto ispirare a Verdi altro che l’ufficiale e ideologicamente “falso” Requiem. I temi, magari, combaciavano — penso alla ‘ricordanza’ tanto leopardiana quanto belliniana (la Ricordanza, romanza su testo del solito Pepoli) e donizettiana –, ma l’intonazione era in armonia solo a livello astratto. D’altronde non era tutta colpa di Musica se il rapporto con la sorella Poesia in Italia non era idilliaco: le poesie di Ugo, di Giacomo e di Alessandro son, di fatto, poesie non-musicali (o d’una musicalità tanto intrinseca da non tollerare sovrammissione alcuna di musiche altre), ed è noto che quando Giacomino, i Canti del quale son ritenuti dal poeta melomane Piero Bigongiari il più alto esempio di Grand Opéra italiano – si badi bene: non melodramma romantico o trobadorico! –, si decise ad andare all’opera (pare che tra le tante paturnie, il poeta soffrisse anche d’un disturbo agli occhi che gli rendeva insopportabile l’illuminazione dei teatri), alla novissima Lucia donizettiana preferì il Socrate immaginario d’un Paisiello d’annata. E sappiamo che Leopardi si commoveva ancora alla “vecchia” Donna del lago rossiniana: una distonia estetica, tra poeti e musicisti, il cui fondamento si trova in una – forse inconsapevole – intuizione di Bigongiari, quando scriveva: “il canto leopardiano – io dico – è figlio del recitar cantando, cioè del canto a voce sola stretto alla parola… essendo la sua musica, cioè il legato in cui si diffonde, non altro che i concetti delle parole imitati, secondo il Caccini, col canto”. Cosa di più lontano dal trionfo della cantilena espressiva di drammi, di teatralissimo pathos, di sentimenti, di sensazioni, d’estrinsecazioni non verbali, di astrazioni romantiche nelle prodigiose iperboli vocalistiche nelle quali si sublima il canto melodrammatico dell’Ottocento italiano? Però Tommaseo versi musicali li scriveva e fu ignorato lo stesso.
Tralasciando i casi di Busoni e di Mascagni – non spregevoli ma poco indicativi dell’arte dei loro autori, il primo essendo un’entusiasta saggio giovanile che in nulla prefigura l’artista rivoluzionario a venire e l’altro una trombonata ufficiale –, quando il finissimo Castelnuovo-Tedesco musica l’Infinito, lo fa con occhio ormai storicizzato verso quella poesia e con uno stile d’intonazione diversissimo da quello dei contemporanei del poeta, e per questo riesce nell’intenzione.
Un qualche cambio di rotta provò ad imporlo la la Scapigliatura milanese, ma fu focherello di breve durata. Lo stesso Boito, che pure con la poesia per il suo Mefistofele aveva prefigurato – nel bene e nel male – la via che avrebbe condotto a D’Annunzio, ossia l’unico dei nostri poeti a curare di persona il rapporto con la musica (da Puccini che corteggiò invano per una vita, a Mascagni per la Parisina, a Franchetti e Montemezzi, che ridusse in opera la Nave, a Debussy e a Pizzetti, il musico più devoto al Vate, esemplato da Anna Bonitatibus con una preziosa monodia gregorianeggiante estratta dalla Nave in versione tragedia); Boito, dicevo, una volta raggiunta una posizione ufficiale (grazie al rapporto con Ricordi e con Verdi, non più giurati nemici) si ripiegò in un edonismo alquanto fine a se stesso: e se le sue traduzioni dei grandi pannelli wagneriani — dal Rienzi, poeticamente bellissimo nella versione boitiana, al Lohengrin che segnò un’epoca (“Mercè, cigno gentil…”, “Mai devi domandarmi…” ), alle più complicate imprese del Tannhäuser e del Tristano – furono tràmiti fondamentali per la penetrazione del nuovo verbo musicale in Italia, l’adattamento ritmico dei Lieder per Mathilde Wesendonck, presentato dalla Bonitatibus, non riesce a sottrarsi al tipico cantilenare del verso italiota non melodrammatico (ei fu siccome immobile dato il mortal respiro, ta-tta-tata-tattattà… — o: Da fanciullo udii soventi / narrar d’angeli clementi / che migrar dal ciel giocondo / per volar sul nostro mondo. / Dove un cuor martìra occulto / soffocando il suo singulto, / dove un cuor si scioglie affranto / fra gli spasimi del pianto, / Dove un cuor domanda a Dio / il riposo dell’avel / viene a lui l’angelo pio / e lo porta orando in ciel. / E a me l’angelo pur venne/ e m’alzar le sante penne, / e disparve il mio dolor / nel sorriso del Signor. Era In der Kindheit frühen Tagen).
Ciò non significa che l’ascolto della versione boitiana non abbia scoperchiato una ridda di suggestioni, per la sonorità liquida dei versi che pareano sciogliere la declamazione wagneriana in un flusso melodico di mediterranea cantabilità. Ma non era proprio quello che il grande lipsiense voleva? Anche il ritmo musicale sembrava diverso, non perché la metrica dei versi non corrispondesse alla scansione originale, ma proprio perché la lingua piega la musica. Non fu solo un fatto di gusto se – ad esempio — la Carmen in italiano suona tanto più ‘verista’ che se la canti in francese (come fai a cantare pianissimo “Di te lo schiavo amor mi fe’” o frasi come … non spingono forse naturaliter a una declamazione più esagitate che l’ampolloso francese?); o ancora, la Salome di Strauss, una volta riportata al gallico originale di Wilde non palesa più apertamente le vicinanze col Pelléas di quanto non accada ascoltandola nel libretto tedesco? Così i Wesendonck-Lieder in italiano sono stati – almeno per me – la cartina di tornasole della penetrazione del wagnerismo a sud del Brennero: quel modo di armonizzare e di trattare la voce riguardo al verso la ritroviamo in tutti, da Smareglia in avanti, il già citato e solo salottiero Tosti, incluso.
Quando – al contrario – è stata la musica ad applicarsi alla lingua e non viceversa, il suono mi ha sempre avuto un che di strano, proprio per la non naturale aderenza non solo alla prosodia, ma alla stessa intonazione delle vocali. È l’effetto che fanno in me capolavori quali i Sonnets di Michelangelo nobilitati da Britten o i celebri Sonetti del Petrarca immortalati da Liszt, dei quali il bel Sonetto dantesco musicato da Bülow pare il compagno intimissimo, per aderenze stilistiche e originalità del ductus vocale, che sembra cercare (e spesso trova) il mezzo per fondere l’aulica declamazione germanica e l’involo canoro italiano.
Liszt e Bülow, dunque, omaggiano in Dante e Petrarca il primo umanesimo italico, Hugo Wolf, poi Britten, Shostakovich e Aribert Reimann trovano potente ispirazione in Michelangelo, quasi uno Shakespeare italiano. I musicisti nostrani, invece, continuano ad ignorarli e quando si volgono al passato, ahimè, l’esempio è Respighi, che pesca nel tritume d’Arcadia, riciclando un Gelsomino di Benedetto Marcello, irrecuperabilmente fuori moda.
D’altronde, l’Italia per darsi un tono non melodrammatico, guarda chiaramente alla Germania, per la musica: del wagnerismo dilagante s’è detto, ma lo stesso Martucci, quando si distacchi dal focolare fin troppo domestico dei suoi ricordi, volge il guardo oltr’Alpe, a Brahms, del quale invano tenterà per una vita di replicare il formidabile senso della forma. Al massimo, il napoletano, ritrovava Mendelssohn, come riprova anche lo Scherzo ascoltato a Parma, oscillante tra un’altra danza di Puck e l’ennesimo feu follet: una scarica di scintille zampillanti, con immancabile intermedio lirico, cui invano la brava pianista D’Aronzo cercava di trovare un’espressività meno meccanica, solo riuscendo a dar l’impressione di sonare col freno a mano tirato. Cosa che non succedeva, invece, con lo spiritato, Omaggio a Stravinsky di Silvio Mix, un musico futurista che andò a morir d’inedia, appena ventenne, su un treno per Parigi (dov’era probabilmente salito clandestino): in questo tour de force e d’agilità, con tratti d’ispirazione geniale (come l’apoteosi in citazione) la pianista mostrava d’aver capito della poetica futurista tutto ciò che era sfuggito a Massimo Venturiello, che con generoso birignao ha letto alcuni testi inseriti nel programma a connettere le varie sezioni musicali, costruendo una sintetica ed elementare, ma ben costrutta, drammaturgia, non inutile anche nei suoi appena sbozzati cenni storico-critici.
Una sferzata venne, come in molti altri aspetti della musica italiana, da Gian Francesco Malipiero (un altro, come Puccini, che l’incontro con d’Annunzio lo faceva pregustare e non lo realizzò, se non per i Sonetti delle fate: ma, in questo caso, fu il musicista a corteggiare vanamente il poeta), il quale se per il suo teatro senza maschere ma costruito su una verità stilizzata (l’anti-verismo!) aveva rispolverato i tipi goldoniani, per l’intonazione camweristica si volge – sarei per dire necessariamente – all’ironia graffiante dei Sonetti del cinquecentesco Berni (l’anti-rinascimento, col permesso d’Eugenio Battisti).
La strada per una nuova cultura poetico-musicale in Italia era tracciata, era la via dell’anti, se non si voleva fare come Mix che, omaggiando Stravinsky, aveva mandato tutto in Pulcinella e detto addio all’Italia. Il giovane Berio, cambiando litorale, dall’adrìaco al ligure, compì l’opera volgendosi al canto popolare, una tradizione nobilissima in Germania e in Russia, nelle puszte danubiane, in Transilvania, a nord del Baltico, in Ispagna e Lusitania, nelle Isole Britanniche, perfino in qualche parte della Francia, ma in Italia no. Tutto si riduce a qualche dispensabile Monferrina di Clementi. E sappiamo bene che, anche il popolare di Berio, in realtà tale non è, visto che il compositore se lo reinventò, quasi tutto, di sana pianta.
Il sorgere d’avanguardie letterarie anche da noi, favorì un tentativo di rilancio, che lo stesso Berio provò a mettere in atto collaborando con Sanguineti, capofila del Gruppo ’63. Ma non durò: forse la “linea ligure” s’isterilì nel pantano della genovesità: ch0avevo l’aspetto orribile dell’ovvio pel Sanguineti ufficiale degli ultimi anni e del ‘facile’ per il Berio orchestratore senza lampi di musiche altrui. Poi ci ha riprovato Sciarrino a ridar volto nobile alla poesia “in” musica, rivolgendosi al Cavalier Marino: l’ultimo era stato Monteverdi, ‘consigliato’ da Sigismondo d’India.
Ho aggiunto una coda alla mirabile rappresentazione di Anna Bonitatibus e della sua splendida collaboratrice Adele D’Aronzo, ma non ce n’era bisogno. La bravura delle due artiste non era che il suggello a un programma di rara intelligenza e di straordinaria attrattiva (la poesia sarà mediocre, ma le musiche son quasi tutte bellissime), magistrale anche nel porgere un’immagine tanto spietata, senza edulcorazioni. A gradire la meravigliosa offerta, nella capitale sedicente della musica, 30 persone, per un terzo giornalisti e addetti ai lavori. Le perle ai porci.
Bernardo Pieri