CIAIKOVSKI Evgenij Onegin E. Stikhina, A. Ruciński, M. Fabiano, N. Surguladze, L. Diadkova, M. Bacelli, A. Tsymbalyuk; Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo, direttore Fabio Luisi regia Barrie Kosky scene Rebecca Ringst costumi Klaus Bruns luci Franck Evin
Questa messa in scena di Barrie Kosky del 2016 per la Komische Oper di Berlino, in co-produzione con Zurigo, proposta dal Teatro di San Carlo, presenta una lettura convincente e coinvolgente del capolavoro di Ciaikovski.
L’Onegin di Kosky conserva tutta la “russicità” del romanzo in versi di Pushkin da cui è tratto il libretto, certo per via dell’ambientazione agreste, ma soprattutto per lo sguardo che getta negli abissi dell’animo umano, senza interessarsi alle condizioni sociali dell’epoca, e per riflesso di quella attuale, tema che sarebbe caro a tanti registi che si sentono impegnati su questo fronte.
Ed infatti, gli abitanti della tenuta sembrano più allegri gitanti borghesi che contadini che festeggiano la fine della mietitura. Neanche il duello come tragico e rigido rituale sociale delle classi alte interessa Kosky; i protagonisti arrivano sguaiatamente ubriachi in scena, scomparendo poi nel boschetto da cui si sentono i colpi di pistola, mentre Tatjana di spalle, impotente, si tormenta le mani.
Tutto inizia come un poemetto bucolico: un pomeriggio estivo all’apparenza spensierato, in una radura erbosa, circondata da un boschetto di betulle, con le giovani sorelle Tatjana e Olga che cantano di sogni e speranze, mentre due anziane donne, Larina e la balia Filippevna, preparano la marmellata e parlano del tempo passato, di ciò che poteva essere e non è stato.
Una scenografia bellissima (e praticamente unica) curata da Rebecca Ringst: il tempo è fermo in quella radura che per i protagonisti diventerà una bolla spazio-temporale da cui non riusciranno più ad allontanarsi. La composizione della lettera a Onegin, la festa per l’onomastico di Tatjana, il duello in cui muore Lenskij, si svolgono sempre in quello stesso scenario; perfino il palazzo del principe Gremin, in cui anni dopo Evgenij e Tatjana si rincontrano, è poco più che un fragile castello di carte in mezzo a quel prato, e infatti viene quasi subito smontato a vista, e i due mancati amanti si ritrovano in quel prato cinto di betulle, che ora è la metafisica figurazione dell’eterno cerchio emozionale da cui non potranno mai evadere. Un acquazzone, non solo metaforico ma reale, sancisce il loro addio pieno di rammarico e di rancore.
A controbilanciare la staticità della scena e per animare gli avvenimenti che si susseguono, la radura diventa una pedana rotante, mentre le luci, magistralmente disegnate da Franck Evin, si prendono cura dei mutevoli stati d’animo dei personaggi.
Protagonista, certo più dell’eroe eponimo, è senza dubbio Tatjana, che è presente in scena anche nei momenti in cui non è coinvolta nell’azione. Con una interpretazione molto centrata, il soprano russo Elena Stikhina cattura tutta la vulnerabile impulsività della giovane, avida lettrice di romanzi d’amore. E infatti regista non le fa propriamente scrivere la lettera in cui si dichiara a Onegin: la ragazza segna semplicemente i passaggi del romanzo che meglio riflettono i suoi sentimenti. Alla fine strappa le pagine, le piega e le porge a Filippevna, perché le porti a Onegin. Come una qualunque adolescente innamorata, fa sue le parole d’amore scritte da altri.
La Stikhina entra ed esce da un abbacinante cono di luce che rappresenta la sua anima messa a nudo. In quel cerchio abbagliante, nel suo animo più profondo, non permette neanche alla sua balia di entrare.
Il soprano russo ha un timbro limpido e fermo, che unisce potenza e bellezza: è stato affascinante seguire la sua trasformazione da giovane sognatrice ad aristocratica padrona (con qualche sforzo) delle proprie emozioni.
Il baritono Artur Ruciński è stato il mascalzone arrogante che doveva essere. Ruciński ha interpretato uno dei personaggi più singolari del repertorio russo, senza far nulla per rendere simpatico il dandy senza scrupoli, ma imponendosi con la sua versatilità vocale e recitativa (esagerando però in arrogante rozzezza nel respingere Tatjana).
Che il centro drammaturgico sia l’abisso esistenziale in cui i due precipitano è anche dimostrato dalla quasi scomparsa alla vista del pubblico del principe Gremin quando questi canta la sua aria: l’attenzione viene posta tutta su Tatjana e Onegin che ascoltano con evidente sofferenza, ricordando la loro mancata occasione di essere felici. Comunque, il Gremin di Alexander Tsymbalyuk, dal timbro liricamente brunito. era pieno di dignità e di sincero amore.
Michael Fabiano ha cantato Lenskij con una vocalità mai forzata e una recitazione molto partecipata: al tono sentimentale del I Atto, sono succeduti gli appassionati accenti nel secondo, chiudendo con la struggente nostalgia per il mondo perduto in “Kuda, kuda”.
Nino Surguladze ha offerto freschezza e immediatezza nel rappresentare una Olga frivola e civettuola. Monica Bacelli e Larissa Diadkova sono state amorevolmente partecipi nei ruoli di Larina e Filippevna; se Larissa Diadkova è stata una balia deliziosamente spiccia, deliziosa è stata la Larina di Monica Bacelli, che è arrivata vocalmente al punto senza mai eccedere.
Roberto Covatta (Monsieur Triquet), Antonio De Liso (un comandante di compagnia) e Rosario Natale (Zareckji) sono stati tutti ben interpretati.
La direzione di Fabio Luisi ha scavato nelle anime dei personaggi, senza mai essere troppo passionale, ma concentrandosi con affettuoso coinvolgimento sulle linee di canto, anche quelle strumentali. Un encomio a parte merita il coro diretto da José Luis Basso, vocalmente coeso e convintamente partecipe.
Lorenzo Fiorito