BACH Suite n. 4 in re maggiore per orchestra BWV 1069 GLASS The Passion of Ramakrishna P. Harvey, M.S. Maurizi; Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Piero Monti Budapest Festival Orchestra, direttore Iván Fischer
Spoleto, Piazza Duomo, 24 giugno 2022
Il 65simo Festival di Spoleto riporta, come nella concezione originaria di Giancarlo Menotti, la musica americana in Europa. Oltre un terzo degli spettacoli sono incentrati su autori americani. Sin dal concerto inaugurale imperniato sul debutto europeo di un oratorio di Philip Glass, che, nato da una commissione congiunta della Pacific Symphony e della Nashville Symphony, ha debuttato in California nel 2006 e negli Stati Uniti è stato ripreso più volte, soprattutto nella costa orientale. Appartiene a quello che possiamo chiamare «il periodo spirituale» di Glass, a cui appartengono lavori come Satyagraha e Akhnaten nonché a colonne sonore di vari film. Non credo che le due opere citate siano mai state messe in scena in Italia; ho un ricordo molto buono di una bella produzione di Akhnaten circa quindici anni fa alla Opéra du Rhin a Strasburgo e di una produzione del Metropolitan di Satyagraha quando un circuito cinematografico italiano proiettava alcune delle maggiori opere delle stagioni del maggior teatro lirico di New York. Nel marzo 2019, il Teatro dell’Opera di Roma ha presentato una «serata Philip Glass»; si è trattato di brani del compositore americano utilizzati come musica per balletto.
The Passion of Ramakrishna mostra, come sempre, un Philip Glass minimalista ed imperniato su una scrittura leggera, ma aperta da una fanfara degli ottoni e dall’impiego di percussioni, specialmente nel separare le quattro «scene» e l’«epilogo» in cui si divide l’oratorio. Per il suo carattere spirituale ed il ruolo centrale del coro ricorda Quo Vadis di Feliks Nowowiejski del lontano 1909 che, pochi mesi fa, ha debuttato a Roma (al Teatro Palladium della Terza Università statale della capitale) ed ha avuto la sua prima versione in Dvd (in Polonia, dopo grandi successi prima della Prima Guerra Mondiale è stato quasi vietato per decenni).
Il coro è in questo lavoro di Glass la voce del protagonista, un mistico indiano della fine dell’Ottocento, morente di cancro tra grandi sofferenze. Il libretto, in inglese, è «compilato e revisionato» da Kusumita P. Pedersen sulla base di testi attribuiti allo stesso Ramakrishna, le cui sofferenze ed il cui «addio alla vita» risultano più vividi. Al tempo stesso le parole del maestro sono consolatorie. Ciò risulta meglio dal testo inglese, che nel programma di sala è presentato a fronte della traduzione italiana. È sempre difficile cogliere le sfumature quando si passa da una lingua all’altra.
Il coro non è unicamente la voce del protagonista. Non solo impersona Ramakrishna ma alcuni suoi elementi danno anche voce a personaggi minori di quella che è una vera azione scenica. Ci sono altri due personaggi di rilievo: il narratore Mahendranath Gupta (l’ottimo baritono Peter Harvey, che è subentrato ad un collega ammalato) e Sarada Devi, la moglie di Ramakrishna che assiste il marito morente (il soprano Maria Stella Maurizi).
Il pubblico, non certo avvezzo alla musica di Philip Glass, ha risposto con vero entusiasmo alla esecuzione. Applausi e anche ovazioni a coro, orchestra e solisti. Mi auguro che il concerto stimoli qualche fondazione lirica a mettere in scena un’opera completa di Glass.
La suite di Bach, con cui si è aperta la serata, temendo forse che l’oratorio di Glass (un’ora circa) fosse troppo breve per l’inaugurazione del Festival, ha avuto applausi di mera cortesia: troppo nutrito l’organico, troppo vasta Piazza Duomo per una suite orchestrale concepita per un salone per pochi aristocratici.
COHEN Firefly Elegy PRESTINI Thush Song TAKEMITSU And Then I Knew T’Was Wind MENOTTI Canti della lontananza soprano Giulia Peri Solisti della Budapest Festival Orchestra, direttore Francesco Bossaglia
Spoleto, Teatro Caio Melisso, 25 giugno 2022
Anche in questo concerto la seconda parte è più importante, ed era più attesa, della prima. Poco si sa dei Canti della lontananza di Gian Carlo Menotti (qui presentati in una trascrizione per voce e ensemble di Orazio Sciortino). C’è chi ritiene che non ebbero successo, in quanto giudicati inferiori ai suoi lavori per il teatro. Credo, invece, che Menotti (il quale era un timido) li tenesse per sé: sette miniature composte su sette bellissime poesie che parlano all’intimo dell’intimo. Scritti per soprano (un soprano d’eccezione: Elisabeth Schwarzkopf) e pianoforte (Martin Isepp) hanno debuttato nel 1967 allo Hunter College in New York. Ho perplessità sull’opportunità di trascriverli per orchestra da camera. Senza dubbio, non ci sono molte cantanti con le qualità della Schwarzkopf, ma mi è parso poco appropriato affidarli alla giovane Giulia Peri, corretta nell’emissione ma con una dizione (ero in palco) difficilmente comprensibile, mentre nei Canti della lontananza la comprensione del testo è essenziale.
Interessanti i brevi brani di Cohen (nato nel 1980), di Prestini (trasferitasi con la famiglia in Arizona alla fine del secolo scorso ed americana a tutti gli effetti) e Takemitsu (nato nel 1930 in Giappone ma con grande esperienza di musica occidentale). Permettono di assaporare la musica americana di due secoli.
ACHACHE, CANDEL, HUBERT Le crocodile trompeur / Didon et Enée M. Bloch, A. E. Davy, V, Galard, F. Hubert, C. Janinet, O. Laisney, L-A. Lutinier, T. Pierrard, J. Peters, J. Sicre, M. Sicre, L. Williams; Direttore del complesso musicale Florent Hubert direttore del coro Jeanne Sicre
Spoleto, Teatro San Simone, 25 giugno 2022
Questo esempio di «théâtre musical» ha sulla carta tutti i titoli per essere presentato in un grande festival internazionale. Ha debuttato nel 2013 al Théâtre des Bouffes du Nord (quello, per intenderci, di Brook e di Lissner), con grande successo ed ottenendo i più ambiti primi della scena teatrale francese. Riallestito nel 2021 da allora gira per teatri di Francia e Svizzera (ha una dozzina di coproduttori).
Più che di «théâtre musical» è un «vaudeville» che prende spunto dal capolavoro di Purcell Dido and Aeneas un po’ per ridicolizzarne la situazione centrale (la regina che si suicida per l’uomo che le preferisce la carriera). Il «vaudeville», però, ha una leggerezza che questo esempio di «théâtre musical» non ha (alcune battute e situazioni sono francamente pesanti) ed è di solito breve: Le crocodile trompeur / Didon et Enéedura quasi due ore e mezzo senza intervallo mentre Dido and Aeneas circa tre quarti d’ora.
Gli attori sono anche strumentisti (il complesso è da camera) e ballerini. Danno prova di grande versatilità linguistica dato che recitano e cantano in francese, inglese e italiano.
Le risate durante lo spettacolo ed i calorosi applausi alla fine indicano che il pubblico si è divertito. Molto. Il vostro chroniqueur un po’ meno. Segno forse di quella che Italo Svevo chiamava «senilità».
Giuseppe Pennisi
Foto: © Festival di Spoleto | Andrea Veroni