VERDI Rigoletto A. Enkhbat, P. Pretti, N. Sierra, G. Buratto, M. Viotti, A. Malavasi, F. Beggi, C. Finucci, F. Pittari, A. Pellegrini, R. Cid; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Gamba regia Mario Martone scene Margherita Palli costumi Ursula Patzak
Milano, Teatro alla Scala, 27 giugno 2022
La Scala sorprende spesso, nel bene e nel male: dopo due spettacoli ben poco riusciti, come il Ballo e la Gioconda, il teatro milanese si ricorda delle proprie immense potenzialità e sforna, in piena canicola estiva, un Rigoletto assolutamente memorabile. E lo ha fatto riunendo un cast fra i migliori oggi ipotizzabili, un regista esperto e interessato al teatro, non alla decorazione più o meno spettacolare, e un direttore giovane, talentuoso, attento sia al rispetto del testo che al suo rapporto con la tradizione.
L’ispirazione dichiarata di Mario Martone è al film Parasite, con il suo mondo di violenza e di un cupo fronteggiarsi di due mondi, fra loro vicinissimi fisicamente eppure opposti: nell’opera verdiana, quello altoborghese del Duca e della sua “corte”, fatto di una bella villa su due livelli, feste con ragazze appariscenti, stupefacenti, rapporti amorosi facili e occasionali, contro i “bassifondi” dei derelitti, che abitano – o, per meglio dire, si accampano – proprio sul retro di quella casa, fra sporcizia e buio, solitudine e desolazione. Le stesse ragazze che allietavano la festa del Duca, una volta finito il loro servizio ritornano lì dietro, si struccano e si cambiano: non c’è scampo a questo mondo di sfruttamento e disordine morale. O forse sì: l’unica via di fuga è quella che Martone indica negli istanti finali dell’opera, mentre Rigoletto piange il cadavere della figlia, e si intravede che una nuova festa è ricominciata. Ma stavolta i “servi” si ribellano, trucidando i loro capi, in una sorta di jacquerie sanguinosa. Un vero pugno nello stomaco, che è profondamente verdiano: ma in genere, per tutta l’opera non c’è mai un momento sprecato, un gesto di troppo, un intellettualismo fuori luogo. Memorabile, ad esempio, il tratteggio di Monterone, probabilmente un ex membro della cricca del Duca che si è ribellato ai suoi metodi mafiosi, venendo ridotto a clochard semiparalitico: e Fabrizio Beggi, oltre a cantare magnificamente, ne dà un ritratto davvero compiuto.
Michele Gamba, di fronte a questo incubo di dolore e disperazione, sceglie la strada meno ovvia: non calca la mano sul suono dell’orchestra, non indugia ad accenti drammatici, ma guida l’orchestra scaligera ad una narrazione sfumatissima e delicata, sempre attenta ad un rapporto dialettico con i cantanti (anche quando è difficile: Piero Pretti ha una concezione assai personale del solfeggio…) e molto elastica nell’agogica. Nessuna volontà di esibizionismo, nessun virtuosismo esibito: ma un bellissimo senso del colore (specie nel duetto Sparafucile-Rigoletto, una sinfonia di grigi), e una immediata capacità di caratterizzare il momento teatrale. Dal punto di vista testuale, Gamba concede (di malavoglia o meno, non è dato sapere) alcuni vecchi vezzi: l’eliminazione della cadenza in “Parmi veder le lagrime”, l’acuto della “Donna è mobile”, quello finale del baritono e qualche altro momento topico (sì, la Vendetta era coronata da un bel Mi bemolle della Sierra e da un La bemolle monumentale di Enkhbat!). Ma certo non transige sui tradimenti meno accettabili apportati da una pessima tradizione: niente Sol acuto su “È follia” e niente Fa diesis su “All’onda”, in cui anzi il baritono indovina una mezzavoce di grandissimo effetto. Era la terza recita, e certamente le cose si sono sistemate rispetto alla prima: ma non è difficile prevedere che Michele Gamba sia fra i nomi su cui contare in futuro per il repertorio verdiano.
Amartuvshin Enkhbat colpisce sempre più per la strepitosa compattezza della voce, un cilindro di suono brunito dal basso agli estremi acuti, ampio e squillante, sia per una dizione fattasi ormai perfetta, al servizio di un fraseggio insinuante, sfumato, generosamente teatrale: e se talora dimentica di calarsi nel personaggio per tornare “il grande baritono”, l’evoluzione rispetto al Rigoletto di Macerata (2019), peraltro già ottimo, è tangibile e ammirevole. E anche la sua relativa goffaggine attoriale, dovuta anche ad una mole cospicua, si inserisce benissimo nel progetto registico. Con lui Nadine Sierra, un soprano leggero dai bei mezzi, riesce a creare una Gilda volitiva e intensa, per niente remissiva, grazie ad un canto omogeneo, dal legato di alta qualità e, nel “Caro nome”, con dei trilli da manuale (finalmente!). Piero Pretti ha una bella voce di tenore all’italiana, è generoso nella linea vocale, ma risulta un po’ anarchico – come detto – nel solfeggio: tuttavia il suo Duca arrogante e cinico convince.
Semplicemente perfetto tutto il resto del cast: dallo Sparafucile brunito e quasi demoniaco di Gianluca Buratto all’ottima Maddalena di Marina Viotti, dalla giovanile presenza, alle tante parti di fianco, fra cui voglio ricordare Rosalia Cid, una Contessa di Ceprano timbrata e squillante (e Giovanni Vitali ce l’aveva segnalata fra le sue “Voci che corrono”).
Successo calorosissimo in un teatro praticamente esaurito: evidentemente il pubblico chiede qualcosa di più che le ennesime riproposte di un teatro-tappezzeria, cui la prossima stagione sembra tristemente occhieggiare.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala