GRIEG Ensom vandrer op. 43 n. 2 SCHUBERT Danze tedesche D. 783 SCHUBERT/LISZT Soirées de Vienne: Valse-Caprice n. 6 BEETHOVEN Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120 pianoforte Massimo Giuseppe Bianchi
Reggio Emilia, Festival dei Pianisti Italiani, Cortile di Palazzo da Mosto, 12 luglio 2022
La figura esemplare del Wanderer, il viandante melancolico emblema del Romanticismo tedesco, era la dichiarazione tematica della serata – una rara serata di temperato clima, di fresco, non invadente zefiro ad addolcire l’afa padana, d’allegre cicale zittitesi, come per rispetto, al primo rintoccar dei tasti bianco-neri – illustrata da Massimo Giuseppe Bianchi con le note del suo pianoforte. Bianchi non è solo un ottimo pianista, egli è – so di metterlo a rischio immediato d’impopolarità – un pianista ‘che pensa’: dunque, non s’è contentato d’esporre in via diretta il tema, di straordinario fascino, di centrale importanza poetica, ma fin troppo sfruttato, ma facendosi parabolico o, se si preferisce, non ritraendo il Viandante ad imitationem naturae ma in uno stile cubista, o almeno non figurativo.
L’incipit era un omaggio en titre, col ‘Viandante solitario’, squisito Lyrisk stykke di Edvard Grieg: solo che quel Vandrer è un placido signore che passeggia pei prati e le colline verdeggianti in estate e graffiati dalla brezza del vicino mare norvegese. Ascoltando il brano (si sa, Grieg era un miniaturista senza pari), par di vederlo quel panorama, il lieve, non opprimente silenzio che l’empie appena screziato dallo scalpiccìo leggero degli scarponi sull’erba molle. Che di botto si trasforma in un’aia, pestata dai piedi, anzi pesantissimi, del campagnolo che danza una scandita Deutscher Tanz, fornita di note e di musica da Franz Schubert, viennese. Ma dopo poche battute ritmate, Schubert (e Bianchi) s’estraniano in un mondo tutto loro: Schubert pare Hoffmann assorbito dai suoi sogni a mezzo della ballata di Kleinzack; Bianchi, che il controllo non lo perde mai, sembra avventurarsi in una sorta di analisi psicodrammatica del Deutscher, proponendo una lettura rifinitissima ed estremamente cerebrale delle danze schubertiane. Sorpresa: l’ascoltatore (almeno, l’ascoltatore che qui scribacchia) mentre segue con attenzione quasi ipnotica i percorsi mentali di Bianchi su Schubert si accorge, come per caso, che sta ballando, i piedi agitandosi a ritmo sollevati da terra per non fracassare col ghiaino cosparso. Un attimo di divertissement e poi la danza torna ad essere esclusivo veicolo di filosofia dell’interpretazione musicale: analisi e trance emotiva; rappresentazione d’una Wanderung astratta, filosofica, ma “dal di dentro”, senza cattedra ed avvincente, che grado a grado ma rapidamente esòrbita la danza dalla sua semplice realtà per stravolgerla in excelsis.
Nei semplici brani schubertiani (ma la semplicità in Schubert è sempre solo apparente e sospetta, ingannevole), l’operazione astrattiva l’ha compiuta il pianista per sua iniziativa d’interprete, nell’escerto dalle Soirées de Vienne di Liszt da Schubert, l’operazione è compiuta direttamente dal compositore. Innanzitutto l’opera è timbrata ‘Liszt’ fin dalla prima figurazione, in tal maniera che sùbito uno s’interroga (la costrizione all’interrogazione interna, non imposta, non forzata, quasi naturale conseguenza dell’eloquenza del pianista, è un po’ il tratto dominante delle letture di Bianchi) sul perché di quell’intestazione Schubert/Liszt: Schubert dove sta? piano-piano, nelle strette trame del dettato lisztiano lo si ritrova, cercando bene, ma mai più che come un retrogusto, sia pure persistente ed inconfondibile. Non molto diversamente – quanto ad effetto — dalla Valse stravolta da Ravel nella sua geniale danse macabre, al contempo tombeau del valzer e sua epifania che in questo Liszt pare quasi premonìta o sollecitata.
Seguendo su questa linea, Bianchi ha innervato delle Variazioni Diabelli di stravolgente lucidità analitica: il capolavoro beethoveniano è forse, con la Missa solemnis, la più studiata, la più cerebrale delle opere di quel genio. Ma, a differenza della Missa, che comunque uno la interpreti, che la gonfi brucknerianamente, la asciughi con l’Urpraxis o la snellisca traverso letture meno liturgicamente ingolfate, rimane un mattone, le Diabelli t’inchiodano alla seggiola come un thriller perfetto.
L’altra sera Bianchi, con la sua lettura continuamente spiazzante, rifuggente da ogni climax (appena la musica sembrava raggiungerlo, il pianista frenava o, talvolta, perfino bruscamente s’inchiodava, per ripartire), ha reso piena giustizia all’originale titolo beethoveniano, Veränderungen, propriamente trasformazioni, o metamorfosi come lo stesso pianista ha preferito definirle nella sua misurata e vivida introduzione al programma, così allargando all’estremo il compasso delle suggestioni, dal nasone di Ovidio ai baffi perfetti di Riccardo Strauss. E non s’è perso per strada nemmeno uno degli spettatori presenti, il Bianchi: eppure non era facile, nessun compromesso accogliendo con la sua interpretazione, né concessione facendo all’effetto strappa applausi: ma non il minimo scartoccìo di caramella, non un colpo di tosse, non una seggiola a stridere sulla ghiaia della corte disturbò un istante la musica.
Anzi, il contegno di Bianchi, le sue letture antiromantiche, talvolta di stravolgente, modernissima gestualità, acquistano in potere attrattivo, anziché provocare cedimenti nell’attenzione di chi ascolta, quasi il pianista fosse un benigno Mefisto. Ma la magìa di Bianchi non è illusionismo, è intelligenza viva.
Bernardo Pieri