La prima esibizione di Lucas Debargue nella città di Padova, in occasione dell’appena conclusa edizione 2022 del Festival Bartolomeo Cristofori, ha soddisfatto le più alte aspettative, rivelandosi uno degli eventi meglio apprezzati all’interno della ricca e animata rassegna.
L’appuntamento era atteso con forte interesse fin dal suo primo annuncio, non solo per la notorietà dell’ospite, ma anche per il curioso contrasto tra due aspetti: da un lato un fatto mondano, ovvero la chiara fama di garçon prodige anticonformista che ancora precede il trentunenne francese (calca la scena internazionale solamente dal 2015, anno della sua partecipazione al concorso Ciaikovski di Mosca); dall’altro lato, la sua scelta di presentarsi con un repertorio estremamente impegnativo (sia dal punto di vista della mera performance che dei contenuti), perfetto per richiamare l’attenzione del pubblico padovano, che è ben preparato e può vantare un’alta partecipazione di addetti ai lavori.
Preceduto dalle parole di Alessandro Tommasi, direttore artistico del festival, che ha introdotto il concerto con una rapida ma approfondita presentazione delle musiche in programma, Debargue fa dunque il suo ingresso in sala: sorridente, ma con movenze rapide, come indaffarato, si assicura al più presto la seduta dello sgabello, all’inquieta ricerca di una giusta concentrazione.
Dopo quasi un minuto ecco finalmente l’attacco dell’Allegro che apre la Sonata in la minore di Mozart, eseguito energicamente e senza timore di dare risalto alla dissonanza formata dal semitono sull’appoggiatura iniziale. Il suo approccio pianistico — anche nell’affrontare un autore settecentesco — è intenso e a tratti turbolento: l’andatura incalzante e un uso generoso del pedale di risonanza fanno sì che i picchi dinamici più significativi risultino improvvisamente sovraccarichi, quasi stridenti. Così facendo, pur non utilizzando ancora fino in fondo il massimo potenziale del grancoda Steinway che gli è stato affidato, riesce a dare l’impressione che il range sonoro utilizzato coincida con i limiti fisici dello strumento. È una scelta sicuramente molto particolare sul piano dell’estetica del suono, ma indubbiamente efficace per quanto riguarda la resa drammatica del brano, che si dispiega con irruenza, ma al tempo stesso animato da un’estrema chiarezza di intenti. Stupisce infatti la febbrile concentrazione di Debargue nel pronunciare ogni nota, determinando una precisa direzione in ogni frase: è volitivo, quasi inflessibile, e non si concede alcuna possibilità di abbandono al flusso della musica.
Dopo un primo movimento eseguito praticamente tutto d’un fiato, Debargue si concede nuovamente qualche momento di preparazione, prima di passare all’Andante cantabile con espressione, che segna quasi un nuovo inizio. Le sonorità degli incisi melodici si aprono, fino a diventare sorprendentemente luminose, e si bilanciano meravigliosamente con le tinte scure (quasi oscure) delle note più basse. In tutta la sala si propaga la bellezza assoluta di questo secondo movimento, preziosamente declamato e ricco di una sottesa inquietudine che poi irrompe — con il solenne incedere della scrittura in terzine — nel suo punto culminante, una delle pagine più struggenti mai scritte da Mozart.
Toccato l’apice, la sonata prosegue con sempre maggiore naturalezza, tanto che il passaggio al Presto finale, staccato con un tempo non troppo rapido, avviene quasi immediatamente. Il pianoforte di Debargue sembra danzare: il dinamismo e i picchi di potenza sonora che nel primo movimento — per quanto efficaci — potevano risultare forzati, addirittura spigolosi, qui diventano più convincenti e avvincenti. Il pubblico è entusiasta e risponde al doppio accordo che chiude la sonata con un fragoroso applauso, che però viene placato anzitempo, poichè Debargue si mostra già pronto ad intonare il magico inizio della Ballata in fa maggiore.
Farà altrettanto con il Preludio op. 45 e con la Polonaise-fantasie (l’ultimo passaggio sarà finalmente silenzioso, senza alcun applauso) suggerendo l’idea di una prima parte di recital concepita come unico arco narrativo: forse il frutto di una riflessione ben meditata sull’opera di Chopin e sulla speciale affinità che il genio polacco nutriva per la musica di Mozart?
In ogni caso, anche se ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire tale, Debargue non è un musicista puramente istintivo e facile alla scelte arbitrarie, ma non è nemmeno ascrivibile a quella categoria di interpreti che, a partire da un umile passo indietro, mettono il proprio talento al completo servizio di una determinata idea musicale. Al contrario: si proietta in avanti, per relazionarsi con le opere in prima persona, mettendo in gioco, con abnegazione, ogni sua fibra. La sua dirompente urgenza espressiva è il frutto di una vera e propria osmosi — pelle a pelle — con la musica e con le necessità impellenti del suo divenire. A tal riguardo, è davvero bella e ben indovinata la scelta di passare dalle sublimi geometrie del Preludio in do diesis minore ai frammentari enigmi della Polonaise fantasie, della quale Debargue offre una lettura emozionalmente intensa ed estremamente libera, quasi a voler rievocare — a ragione, specie con questa composizione — la genesi improvvisativa dell’arte pianistica di Chopin.
Una menzione speciale va però all’esecuzione della Ballata, uno dei momenti più alti e stupefacenti di tutto il concerto. Gli episodi in tempo di Andantino sono eseguiti magistralmente, tanto per quanto riguarda la bellezza intrinseca del cantabile di Debargue, quanto per una libertà agogica sensibilmente commisurata al procedere del discorso, nonchè per l’efficacia con cui emerge la polifonia (troppo spesso trascurata) che ne caratterizza in modo importante la scrittura. I Presto con fuoco — non troppo rapidi e molto rubati — irrompono maestosi, sprigionando una sonorità che oserei definire oceanica, la quale si convoglia con infallibile frenesia nelle difficoltà dell’Agitato finale: un autentico prodigio di virtuosismo.
Le sue capacità tecniche sono impressionanti: a partire dalla solida scuola di Rena Chereshevskaya, la nota didatta con cui si è formato, fino al successo ottenuto durante il premio Ciaikovski, Debargue ha sviluppato un pianismo dai tratti dionisiaci, un po’ disordinato e spigoloso a vedersi (in alcuni momenti di particolare passione arriva quasi ad alzarsi dallo sgabello) ma di rara efficacia e potenza. Il suo controllo del suono (vuoi per i suoi natali pianisticamente russici, vuoi per una naturale costituzione individuale, tende a frequentare maggiormente la zona del forte, nonostante la maestria nel pronunciare con chiarezza anche il pianissimo più delicato) è sorprendente, in particolar modo per quanto riguarda la capacità di conferire la proiezione desiderata ad ogni singola vibrazione sonora. Oltretutto non sbaglia quasi nulla, anche quando affronta i passaggi più ostici a velocità estreme.
Con tali qualità pianistiche, sostenute da una notevole riserva di energie fisiche e psichiche, i brani, sotto le sue mani, risultino come “ampliati”, in tutti gli aspetti: dalle fattezze del discorso musicale alle escursioni dinamiche dello strumento. Il repertorio della seconda parte del recital è particolarmente adatto per manifestare questa sua peculiare attitudine, che — del tutto slegata da egotici intenti magniloquenti — appare come il frutto di una radicata necessità espressiva. Le visioni letterarie musicate da Ravel e da Liszt si fanno vaste e si ergono, vibranti, al pari dei maestosi giganti raffigurati negli affreschi che circondano tutta la sala: cornice perfetta per l’esibizione di un Debargue in evidente stato di grazia.
Gaspard de la nuit è certamente l’altra vetta raggiunta durante il concerto, a cominciare dal primo dei tre brani che lo compongono, Ondine, che stupisce per la densità cristallina del suono e per la definizione di ogni nota dei suoi complessi disegni, nonostante un andamento ben mosso ed estremamente fluido, libero: eseguito così, finalmente privo di rarefazioni di comodo (o, in alternativa, di rigidità agogiche in favore di una chiarezza che arriva a ingessarsi) diventa davvero “raveliano”! L’esecuzione è trascinante — specie nel punto culminante, eseguito magistralmente — e in alcuni passaggi tra i più delicati Debargue si prende pure il lusso di giocare coi suoni, creando delle brevi piacevolissime dissonanze, quasi dei barlumi di luce. Segue un Le gibet relativamente mosso, caratterizzato da una connessione molto marcata tra volumi sonori e movimento delle parti. Il brano quasi si tramuta in una lenta e inquieta danza visionaria, nella quale spesso il moto dell’appeso (che molti pianisti curano di suonare statico e inespressivo, in contrasto con il resto) si rianima di una volontà insistente, quasi ribelle al rassegnato paesaggio di morte. Sono però le folli visioni di Scarbo a impressionare maggiormente l’uditorio. Questo brano tanto arduo quanto meraviglioso (concepito da Ravel proprio con l’idea di raggiungere la massima difficoltà pianistica possibile) viene spinto all’estremo in tutte le direzioni: l’ascolto è vertiginoso, quasi destabilizzante. I passaggi rapidi, suonati ad una velocità ai limiti del possibile, ma con estrema precisione e con un’energia ritmica graffiante e inquieta, mettono letteralmente i brividi; i momenti di esplosione e i due principali punti culminanti partono trattenuti da un rubato molto marcato e poi si scatenano implacabili, facendo esplodere il pianoforte; per contro, le parti più meditative ed i silenzi arrivano spesso a dare l’impressione che la musica si fermi. Che se ne condividano o meno tutti i dettagli, la “regia” di Debargue è estremamente efficace e l’altezza del suo livello esecutivo, indiscutibile.
Come era avvenuto con i passaggi tra i brani della prima parte del recital, Debargue attacca quasi immediatamente la massiccia Sonata Dante, durante la quale riesce incredibilmente a mantenere — quasi proseguire — i molteplici livelli di tensione raggiunti in Ravel, senza arrivare a virare verso un’esecuzione esplicitamente virtuosa, per quanto la scrittura pianistica di Liszt ne offra ripetute occasioni. L’incontro tra l’inesauribile potenza espressiva del solista e il susseguirsi continuo, quasi parossistico, dei punti culminanti che affollano il brano, soprattutto nella sua parte finale, genera un’esperienza d’ascolto esaltante e al tempo stesso stordente. L’incontenibile Debargue tra queste continue esplosioni di suono sembra essere nel proprio ambiente naturale: non mostra alcun segnale di stanchezza. Quando l’accordo finale arriva per davvero, vi rimane letteralmente aggrappato, lasciando una mano sospesa in aria fino a che, con un ultimo gesto volitivo, coordinato col rilascio del pedale, da termine all’ultima vibrazione: il pubblico esulta.
Regalerà tre bis: due sonate di Scarlatti e poi — gran sorpresa! — una sua creazione, “un piccolo scherzo”, che si rivelerà essere una composizione frenetica e stilisticamente variopinta, ricca di gioco e virtuosismo.
Mi viene in mente un passo dell’Idiota, in cui Dostoevskji riflette sul rapporto tra realtà ordinaria e realtà letteraria, non diversa dalla prima, ma meno “diluita”: si può dire — sotto questa prospettiva — che l’arte di Debargue sia radicalmente tesa verso un “assoluto letterario”. È una strada che non ammette deviazioni: non può permettersi il sano distacco dell’osservatore e nemmeno la sovranità del narratore. In questa univocità sta dunque il suo punto di forza, ma — nello stesso tempo — anche il suo più grande limite. L’esperienza di ascolto che offre è tanto intensa da mancare di quell’ampiezza di respiro che potrebbe scaturire da un più equilibrato gioco delle parti tra interprete e opera, permettendo alla musica di manifestare ambiguità ed enigmi e al pubblico di partecipare sottilmente alla magia del rito concertistico. D’altro canto, in un panorama musicale tanto affollato da spingere troppo spesso i giovani talenti ad una prematura ricerca di equilibrio, Debargue emerge come uno dei i pochissimi solisti ad avere tutte le qualità e l’incisività necessarie per potersi permettere un rischio di tale portata.
Matteo Galzigna