VERDI Otello A. Soghomonyan, L. Haroutounian, R. Burdenko, M. Bagh, M. Ogii, G.B. Parodi, E. Peroni, F. Valenti, G. Pelizon, D. Locatelli; Coro e orchestra del Teatro Verdi di Trieste, direttore Daniel Oren regia Giulio Ciabatti costumi Margherita Platé luci Fiammetta Baldiserri
Trieste, Teatro “G. Verdi”, 4 novembre 2022
Con un promettente correttivo generazionale grazie ad un innesto di giovani nel ceppo antico dei gala inaugurali e con un umore rinfrancato dal ritorno alla quasi normalità, il Comunale di Trieste ricomincia… da Oren. Il sovrintendente Giuliano Polo, alla prima programmazione in toto nella sua città natale, di cui ben conosce lo spirito conservatore, ha voluto riportare a Trieste, seppure solo per le prime tre recite, il direttore israeliano che vi mancava da quando vicissitudini di varia natura avevano interrotto nel 2007 il lungo rapporto di affetti e memorande imprese sul podio del Verdi dove, fresco vincitore del Premio Karajan, lo aveva condotto Raffaello de Banfield. L’orientamento della stagione sembra quello di dare priorità alla qualità musicale, evitando audaci e innovativi progetti di messinscena. L’Otello inaugurale è stato affidato così per la parte visiva a Giulio Ciabatti, che aveva firmato la regia dell’ultima edizione del 2010 diretta da Nello Santi. E Ciabatti, nel riprendere l’allestimento in economia, ha operato saggiamente “a togliere” anziché “ad aggiungere” scegliendo l’essenziale di un cubo scenico allusivo, entro il quale ha composto con pulizia formale ed efficace luministica (Fiammetta Baldiserri) l’azione della tragedia, specie nella “ragna” psicologica di Otello e Jago. Contesto scenico che non crea problemi di sorta all’esecuzione in cui Oren – maestro dell’Iperbole ma anche del fraseggio – si riconferma lo stratega coinvolgente che sappiamo. Con la consueta foga inesorabile e analitica va diritto ai nodi e alle tinte del capolavoro verdiano, ne attizza i fuochi, ne addensa le cupezze, ma ne distilla anche le lucentezze e le evanescenze ad effetto, tali da magnetizzare pure le sospensioni del suono, i “silenzi” notturni alla fine del primo e all’inizio del quarto atto. Orchestra e coro (quest’ultimo in attesa di un potenziamento d’organico) vi ritrovano tutte le motivazioni. In più Oren ci mette come sempre la sensibilità nella conoscenza dei pregi e dei limiti dei cantanti a disposizione, di servirli e di servirsene al meglio.
E qui si imponeva particolare abilità, trattandosi di una compagnia pressoché inedita con una singolare componente armena per i protagonisti: compagnia ben assortita e concertata. E dal momento che Otello è uno che il biglietto da visita non te lo porge ma te lo schiaffa in faccia, l’“Esultate” di Arsen Soghomonyan è una rassicurante garanzia: volume e timbro sono quelli che ci vogliono; ma più della cavata e dello squillo è interessante (e in questo, per tornirlo appuntino, ci deve aver messo certo mano Oren) il controllo di “piani” sonori che sa impregnare di emozione. Peccato solo che la fibra vocale a tratti si irrigidisca generando l’impressione che l’interprete si sia per un momento estraniato, sia uscito dal ruolo. Il che non succede certo a Roman Burdenko a conferma della alterità coprotagonista nell’onnincombente Jago: ampiezza ed omogeneità di canto sulla parola con un’incisività che non scivola mai verso la caratterizzazione genericamente mefistofelica. Lianna Haroutounian è una Desdemona che unisce alle qualità ed al calore di soprano lirico lo spessore latente di una tempra forte. Con il tenore coreano Mario Bagh (Cassio) e con Marina Ogii (Emilia di spicco), il resto del palcoscenico è equilibrato e meritevole di prendere parte al successo finale, molto caloroso e di ottimo auspicio.
Gianni Gori