PROGRAMMA A SORPRESA, annunciato dall’artista sul momento pianoforte Sir András Schiff
Milano, Sala Verdi, Società del Quartetto, 10 gennaio 2023
Una scia luminosa, di apollinea bellezza ha attraversato il recital con programma a sorpresa di András Schiff, 33° appuntamento del grande pianista ungherese con la Società del Quartetto. Un recital che, dopo una introduttiva Aria dalle Variazioni Goldberg BWV 988 di J.S. Bach, si è configurato come vera e propria lezione-concerto. La sequenza dei rituali tre inchini, al centro, a sinistra e a destra, hanno dato il la al rito iniziatico con il quale Schiff, ha inteso accompagnare il pubblico verso uno status più profondo della conoscenza, gettando un ponte tra Barocco e Classicità viennese. I legami tra le opere di Bach e Mozart, e quelle di Haydn e Beethoven, gli autori in programma, si sono quindi palesati in sequenza come da un cappello di prestigiatore: per alcune persone, gli addetti ai lavori, secondo connessioni chiarissime, per altre, meno avvezze ai tecnicismi, con tutta l’emozione e lo stupore della scoperta.
L’avvio è avvenuto sulle note della fuga cromatica del Ricercare a tre dall’Offerta musicale BWV 1079 che J.S. Bach, nel lontano 7 maggio 1747 a Postdam, aveva improvvisato su un giovane modello di pianoforte Silbermann, altrimenti detto fortepiano: doveva compiacere Federico il Grande che non solo era flautista, ma grande ammiratore dei nuovi strumenti. A seguire la Fantasia K 475di Mozart, in un rapporto non soltanto dato dalla comune tonalità di do minore – una scultura di bronzo, il do minore, nell’immaginario di Schiff-, ma anche dalla affinità nella costruzione intervallare dei motivi caratterizzanti. L’incipit del soggetto della fuga del Ricercare e il pannello di apertura della Fantasia cominciano con un tema non armonizzato che tocca tutti i gradi della triade di do minore ascendente, per poi ampliarsi alla sesta minore e quindi discendere improvvisamente di settima diminuita: un procedere insaporito, in Mozart, da due appoggiature cromatiche, un fa diesis prima della quinta e un do prima della settima diminuita. Per Schiff si è trattato di accostare la teatralità, sublimata, della partitura mozartiana alla scarna rarefazione del Ricercare, ottenuta con una calibrazione perfetta e distaccata del pedale, con un tocco sensibile ma argentino delle dita a rendere la costruzione geometrica del contrappunto bachiano: un cromatismo, qui, che non è specchio della sofferenza umana ma si trasfigura in un sentire puro, simbolico. Certamente condizionata dal prossimo debutto, il 27 gennaio 2023, come direttore del Don Giovanni di Mozart a Salisburgo, la sua visione della Fantasia è invece quella di un mini Don Giovanni con tanto di Leporello “tremante” (fine della prima parte quando, dopo svariate peregrinazioni armoniche, si giunge alla dominante), di Donna Anna (tema in re maggiore) e Don Ottavio (Andantino in si bemolle maggiore, un “Dalla sua pace” strumentale): teatro, come già detto, non caricaturale ma sublimato, dove la sacra sindone delle forme sostituisce la carnalità dei personaggi, dove il suono, sempre bellissimo, si fa veicolo di un teatro di movimenti pantomimici più che di sentimento.
Quindi dal do minore “di bronzo” passiamo al blu-celeste alla Vermeer del sol maggiore della Quinta Suite francese BWV 816 di J.S. Bach e della Eine kleine Gigue K 574 di Mozart. Inscritte tra gli estremi di una dolcissima Allemande tedesca e di una Gigue scozzese-irlandese che profuma di candore infantile, le danze della Suite si sono susseguite affettuosamente: una vivace Courante francese filtrata da occhi italiani, poi una Sarabande spagnola di elegantissima, nobile rarefazione, quindi le tre raffinate danze alternative, Gavotte, Bourrée, Loure, (rubatissima, la Gavotte!): limpide, amabili, cariche di tenerezza, illuminate dall’epifania di voci nascoste nella tessitura contrappuntistica e da un’espressività che ha alternato felicemente una dinamica di tipo accentuativo, più legata alle potenzialità dello strumento pianoforte, ad una espressività di tipo quantitativo, memore della tradizione clavicembalistica. Questa purezza di linee è sfociata nell’Eine Kleine Gigue di Mozart, omaggio a Bach che nel giro di quattro battute tocca tutti i dodici suoni, l’intero spettro cromatico: anticipazione inconsapevole della dodecafonia schoenberghiana?
A chiudere la prima parte di questa lunghissima serata – che toccherà le tre ore e un quarto di musica- ancora un dittico Bach-Mozart, questa volta nella tonalità, argentea, di si bemolle. Dapprima il suggestivo Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo BWV 992, un racconto frazionato in sei parti che Schiff ha affrontato con grande fluidità discorsiva. Nella sua essenza, musica a programma ante litteram legata ad un avvenimento familiare della gioventù di Bach, databile, grosso modo, tra il 1703 e il 1704, ovvero la dolorosa partenza del fratello maggiore Johann Jacob, oboista, destinato ad arruolarsi nella guardia di re Carlo XII di Svezia. Dopo un Arioso – Adagio, “una lusinga degli amici per trattenerlo dal partire”, seguita da “una rappresentazione delle diverse vicende cui potrebbe andare incontro nel paese straniero”, arriva, per Schiff, il cuore emotivo dell’opera, l’Adagiosissimo,“lamento generale degli amici”, una passacaglia costruita su un doloroso basso cromatico, che riporta alla mente When I am laid in earth, l’aria più famosa dell’opera Dido and Aeneas di Purcell, il canto con cui Didone abbandona la vita. La conclusione dell’opera, è preparata dal congedo degli amici, ponte di collegamento tra l’Adagiosissimo e le due sezioni finali, l’Aria di Postiglione. Allegro poco e la Fuga all’imitatione di Posta, che risollevano gli umori con il gusto per l’onomatopeia. A seguire la Sonata K 570, del 1789, capolavoro di equilibrio e delicatezza formale del tardo Mozart, costruito su un materiale essenziale quasi di stampo haydniano, come è dimostrato, nell’Allegro iniziale, dal materiale motivico del primo e secondo tema, sostanzialmente identico. Qui Schiff è eccelso sia nel lirismo di alcuni dettagli o sezioni – il tema della coda dell’esposizione del primo movimento o, in generale, il commovente Adagio in mi bemolle -, come nella capacità di rendere assolutamente intellegibile e vitale il contrappunto a due voci del finale, Allegretto, di un umorismo privo di malizia.
La seconda parte di questo viaggio, incentrata su Haydn e Beethoven, ha esordito con due capolavori assoluti della letteratura pianistica scritti a distanza di più di vent’anni, la Sonata in do minore Hob.XVI/20 del 1771 e le Variazioni in fa minore/fa maggiore Hob.XVII/6 del 1793. Haydn, come è noto, deve molto a C.P.E. Bach, uno “scopritore – secondo Brendel -, al punto da vivere quasi soltanto di sorprese, un po’ come Berlioz”, in cui gli sbalzi d’umore e interruzioni repentine si alternano alla sottile ipocondria dei momenti introspettivi. Ascoltando e vedendo lo Schiff interprete di queste pagine, il rimando alle parole con cui Jean-Paul Richter definisce il termine tedesco Humor è istantaneo: “l’atteggiamento grave di chi compari il piccolo mondo finito con l’idea infinita: ne risulta un riso filosofico che è misto di dolore e di grandezza”. Riso filosofico che si è espresso nell’etereo humor, come nella sottigliezza fortepianistica, o forse ancor più clavicordistica, della Sonata in do minore, emblema della sua fase Sturm und drang: è infatti la prima, tra le Sonate di Haydn, che trasuda ad ogni battuta di indicazioni dinamiche. Con Schiff la Sonata ha quindi trovato il suo culmine nell’intensità espressiva degli sviluppi del Moderato di apertura e del Finale-Allegro, quando nella riesposizione si apre una breccia che porta ad una sequenza di progressioni, in incrocio, per nulla risolte in chiave sentimentale o preromantica: semmai una nuda costellazione, luminosissima, di richiami a catena. Poi quella sorta di Marcia funebre che sono le Variazioni, dall’inspiegabile sottotitolo, secondo Schiff, “Un piccolo divertimento” (ma il sottotitolo è citato completamente solo se preceduto dal termine Sonata, che fa riferimento alla natura bitematica di questo lavoro, risalente al primo periodo trascorso a Londra da Haydn). Un’interpretazione straordinaria, al cui confronto regge la sola interpretazione di Alfred Brendel, ascoltato in pubblico alcuni anni fa: una visione altrettanto suggestiva e convincente, altrettanto raffinata e grondante di dettagli minuziosi nell’accentuazione degli incisi motivici, altrettanto varia e discorsiva, altrettanto accurata nell’uso del pedale, sebbene emotivamente più spigolosa, più tagliente, più razionale. Schiff invece ha lavorato sull’avvicinamento del clima espressivo dei due temi principali e delle successive due variazioni, sulla naturalezza con la quale vengono giustapposti in successione malinconia dolorosa e tenera consolazione, per poi aprire un disperato squarcio nello sviluppo, costruito su moduli tipicamente di carattere improvvisativo, che Haydn fa esplodere in tutta la sua intensità a partire dalla riesposizione del tema in fa minore. Con quegli aforismi geniali che sono le Bagatelle op.126 di Beethoven, si è quindi chiusa la performance di questo artista unico che sembra provenire da un’altra galassia, forse da Marte: in una sospensione, magica, del tempo, una lezione di indimenticabile bellezza.
Silvia Limongelli
Foto: Amedeo Trezza