DVOŘÁK Te Deum op. 103; Leggenda n. 6 dalle Dieci Leggende op. 59 JANÁČEK Vangelo eterno; Taras Bulba K. Kněžíková, N. Spence, V. Priante; Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Jakub Hrůša
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 21 aprile 2023
La ricorrente presenza di Jakub Hrůša sul podio dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (si veda l’ampia e significativa intervista con lui sul numero 345 di MUSICA) ha come felice corollario la fruizione di pagine d’un repertorio slavo che una volta (rarissime le presenze di un Ančerl o di uno Smetáček) era il solo Lovro von Matačić a dirigere all’Auditorio Pio di Via della Conciliazione. Hrůša stavolta è andato ancor più fuor dell’usuale e ha portato dalla Boemia un gruppo di composizioni rare e accattivanti di Dvořák e Janacek. Apriva la serata il bellissimo Te Deum di Antonín Dvořák, a Roma presentato solo una volta nel 1967 proprio da Matačić. Eppure è un lavoro (eseguito in prima assoluta a New York il 12 Ottobre 1892 per le celebrazioni colombiane) originalissimo e nel quale non scorgiamo (come altri) alcuna “imminenza americana”. Diremmo anzi che questo Te Deum rispecchia in modo vivo e vero la religiosità del popolo boemo. Una religiosità forse ingenua, ma intimamente legata alle tradizioni, alle liturgie, alla spiritualità dei luoghi e delle genti. È un Te Deum contadino questo di Dvořák, nel quale è facile indovinare affreschi e icone sacre dai toni vivi, dai tratti rustici, come dei “Vangeli dipinti” un po’ primitivi e un po’ barocchi insieme, ma tali da spiegare il sacro ed incantarsene al tempo stesso. Se si confronta questo Te Deum con quello di Bruckner (di neppur dieci anni precedente), in fondo simile per dimensioni e struttura, ben si comprendono le profonde differenze di pensiero e d’idioma fra la gloria assai pensosa di “cose ultime” dell’Austriaco e quella debordante di colori e vitalità del Boemo. La direzione di Hrůša ha evidenziato tutto ciò con una brillantezza di suono e una freschezza d’ eloquio a dir poco esemplari, grazie anche all’ottimo apporto del coro e dei due solisti, Kateřina Kněžíková e Vito Priante.
Seguiva la breve e maliosa Leggenda n. 6 dello stesso Dvořák e subito dopo, in prima esecuzione nei Concerti dell’Accademia, quel lavoro singolare di Leoš Janáček che è il Vecné Evangelium, cantata per soprano, tenore, coro e orchestra su testo di Jaroslav Vrchlický tratto da Gioacchino da Fiore. La grandiosa retorica di tal partitura, scritta nel 1914. ha la sua radice prima nell’appena iniziata Guerra Mondiale, nell’urgenza morale di lanciare un ammonimento ai regni e agli stati latori di male e di morte. Altra radice e meno drammatica ha questo Vangelo eterno nella sensibilità spirituale di Janáček: sincretistica e panteistica, esoterica e idealistica, che nelle profezie di fra Gioacchino volentieri andava ad identificarsi. Il risultato francamente non ci è parso eccelso: le apocalissi verbali e sonore profuse assai largamente vi appaiono ampollose e ripetitive, riuscendo a salir di qualità ormai alla fine, con l’a solo del tenore “Tutto questo l’angelo mi ha detto nella notte scura”, di grande e sincero fervore. Il nostro direttore ha accentuato e infiammato le linee di tensione della complessa partitura, forse volendo farne uno Skrjabin boemo. Ed ha dato bellissimo e sottile supporto strumentale al bravo Nicky Spence, la cui argentea e stilizzata vocalità non ha avuto timore d’inerpicarsi su tessiture invero vertiginose
Chiudeva la serata uno dei capolavori sinfonici di Janáček: quel Taras Bulba ove la storia e la leggenda dell’eroe ucraino, indomito avversario dei cosacchi, assume toni di poesia epica forse mai nel suo genere eguagliati, ma anche inflessioni d’un lirismo che è quello di un’umanità colpita dalla più profonda lacerazione degli affetti. In fondo Taras Bulba è musica che ben potrebbe commentare gli atroci odierni eventi di quelle stesse terre e di quegli stessi popoli condannati da sempre a confliggere. Hrůša ha inflitto con tal partitura emozioni straordinarie, imprimendo all’eccezionale bellezza della sua orchestra una violenza drammatica che pur non perde mai la sua scabra, sintetica, tormentata modernità.
Successo e chiamate a non finire per tutti. Ma non molto pubblico: bisogna offrire solo Beethoven e Brahms per smuovere il colto e l’inclita?
Maurizio Modugno