SHOSTAKOVICH Quintetto per pianoforte e archi op. 57 pianoforte Massimo Giuseppe Bianchi violini Ilya Grubert e Valentina Danelon viola Silvia Mazzon violoncello Giuliano De Angelis
BRAHMS Quintetto per pianoforte e archi op. 34 pianoforte Marcello Mazzoni violini Ilya Grubert e Valentina Danelon viola Silvia Mazzon violoncello Giuliano De Angelis
Reggio Emilia, Palazzo Mosto (Festival dei Pianisti Italiani), 15 luglio 2023
Il programma su indicato si è aperto con un giovanissimo Alessandro Borrini, allievo d’Andrea Padova, che ha esposto pagine schumanniane e da Rachmaninov con limpidezza di tratto, secondo una lettura che rivelava a chiare lettere la severità analitica propria del reputato maestro di questo giovane.
Nel Quintetto di Shostakovich erano invece palpabili l’entusiasmo e la compenetrazione idiomaticissima del capolavoro infuse ai più giovani colleghi da quel musicista finissimo, di straordinaria dolcezza e infinita comunicativa nella profondità del pensiero, che è Ilya Grubert. Il quale Grubert dovette trovare, per quest’opera, un sodale immediato nel pianista Bianchi, altro artista che delle opere sa sviscerare i risvolti più reconditi senza farlo pesare all’ascoltatore con esecuzioni troppo seriose. I quattro movimenti del Quintetto, immersi per tutta la ragguardevole lunghezza dell’opera in un incanto di chiaroscuri, sollecitavano gli ascoltatori a continui sobbalzi emotivi. L’opera, come di norma in Shostakovich, ha un’apparenza che non rivela la sostanza, sempre più sfaccettata, meno immediatamente afferrabile, anzi spesso sfuggente, mimetizzata, che va individuata e rivelata a chi ascolta: il difficile è che, individuata la sostanza, non puoi trascurare la superficie, se non a prezzo di deformare l’opera. Shostakovich, se non lo si riduce a maniera (funziona ugualmente, in una cifra superficiale che ad alcuni può bastare), è uno dei musicisti più complessi e rognosi da inverare che la storia abbia conosciuto: quando ti sembra d’aver colto il punto, scivola anguillescamente dalle mani.
Ecco, dunque, che dopo un primo tempo – molto bello, molto ben suonato – “classico” e come di presentazione, la Fuga (la costruzione savante è mero espediente per tutt’altro) getta di botto in una forra inquietante, nella quale le entrate dei singoli strumenti sembrano apparizioni di fantasmi. L’attacco da parte di Grubert, con un melodizzare intimissimo, nel quale serenità e strazio convivono come solo in un’anima russa sanno e possono convivere, mi ha sinesteticamente proiettato certe immagini, desolanti e meravigliose, di V lyudyakh (“Tra le gente”) o della Giovinezza di Gorkij, i primi due capitoli della trilogia gorkiana volta in capolavoro da Mark Semënovič Donskoj, il grande regista dell’Aufstieg sovietica. Immagini che mostrano lo squallore della povertà e, insieme, la meraviglia della scoperta del mondo attraverso lo sguardo del bambino ignaro, prima, poi del giovinetto già provato alle durezze della vita ma con un insaziato anelito di conoscenza che volge tutto al positivo. Così, poche note di Grubert hanno agitato in me un intero mondo di suggestioni, di meraviglie, di scoperte, che le entrate successive degli strumenti hanno arricchito di trasognate allucinazioni.
Ancora, certi interventi scoperti della viola (ce ne sono numerosi), la quale, col suo suono ruvido come il petalo d’una rosa secca ma dagli infiniti riflessi di luce, sconquassava l’espressione del momento come una seduzione irresistibile, ipnotica. Silvia Mazzon suona uno strumento di liuteria dal suono eccezionalmente potente e straordinariamente bello, ma purosangue del genere vanno poi saputi gestire, perché han carattere bizzoso, e la mano ferma della Mazzon è tutto merito della artista, la quale (forse perché viene dal violino), non ha il timore reverenziale di troppi suoi colleghi di strumento a farsi sentire come si deve e ‘colora’ con dovizia di tinte e di sfumature, incanta magneticamente con irresistibile fascinazione, intelligente responsabilità protagonistica. Ma ancora dovremmo dire dell’esattezza affettuosa del violino di Valentina Danelon e della rotondità morbida, delicata, del sensibile Giuliano De Angelis al violoncello, mai prevaricante, sempre puntuale. Massimo Giuseppe Bianchi, come suo costume, non trascurava una nota, un disegno, per quanto apparentemente secondario o ridotto a semplice figurazione, che egli fraseggiava sì da arricchire la trama portante degli archi, ad ogni istante e non solamente quando la musica porti il pianoforte alla ribalta. “Onore e sostegno”, come si canta nella Favorita donizettiana, con l’umiltà di mettersi in primo luogo al servizio della musica e l’orgoglio di farlo secondo la propria spiccatissima personalità d’interprete intellettuale.
Così abbiamo ammirato cinque strumentisti splendidi fondersi in uno senza perder distinzione, per dare vita a un momento d’arte musicale memorabile. La nostra più ammirata gratitudine.
Il Quintetto di Brahms restituì, in opposizione a Shostakovich (per inciso: quante corrispondenze tra questi due capolavori in apparenza tanto distanti tra loro!), un musicista en plein soleil, attraverso un’esecuzione trasudante (e non per il gran caldo della serata) romanticismo appassionato. Il traino, il cardine dell’esecuzione era spostato dal primo violino al pianoforte, ora sotto le dita “abbaglianti” di Marcello Mazzoni (uno dei talenti pianistici più sfavillanti in circolazione, per sprezzatura di virtuosismo). Ma non era come ascoltare un concerto per pianoforte con orchestra ridotta, che sarebbe stato sciupare Brahms; ma – volendo — un concerto per quattro archi solisti e l’orchestra condensata nel piano eruttante di suoni, ove potenza non era mai scàpito di eleganza: gli archi non perdevano un filo d’intonazione né di tensione. L’esecuzione travolgente, tutta in evidenza, era come una corsa mozzafiato verso il giusto trionfo d’applausi con il quale il pubblicò sfogò liberatoriamente l’adrenalina accumulata nel corso di mezzora di fuochi, di luci, di torrentizia passione sonora.
Due concerti, in sostanza, in una serata, una unica – sia pure differente – appassionata dedizione alla musica, un unico plauso di ammirazione.
Bernardo Pieri