Il metal e la classica? Due mondi molto lontani, ma che nell’esperienza di non pochi musicisti si sommano, e trovano insospettabili punti di contatto. Con questa intervista iniziamo una serie di ritratti di personaggi “fuori dagli schemi”.
Manuel Staropoli è un versatile polistrumentista che oltre a un’intensa attività nell’ambito del repertorio rinascimentale e barocco è solito calcare i più affollati palchi dell’hard rock e del metal. MUSICA l’ha incontrato per la prima volta, con il proposito di mettere in rilievo tale duplice inclinazione e vocazione.
Partiamo dagli inizi. E cosa l’ha condotta a un percorso per certi versi così peculiare.
A Trieste esistono delle istituzioni comunali detti ricreatori (diciamo grossomodo l’equivalente degli oratori ecclesiastici), retaggio austroungarico. Da bambino vi trovai il maestro Sergio Pittaro, un docente appassionato di musica antica e di flauto dolce, strumento di cui mi innamorai immediatamente e che non ho più lasciato. Dopo il diploma in questo strumento, conseguito nel 1997 proprio a Trieste, iniziai a praticare, seppure da autodidatta, il traversiere direttamente attraverso le fonti (Quantz essenzialmente) anche perché in quel momento nella mia città non c’era quasi nessuno che lo suonasse; Trieste è una bellissima città mitteleuropea, ma sul piano musicale è attiva soprattutto in altre direzioni. In seguito scoprii l’esistenza della scuola di Alto Perfezionamento di Saluzzo, attraverso la quale entrai in contatto con un istituto specializzato nella musica barocca, ovvero l’Accademia del Ricercare che ha sede a San Raffaele Cimena [presso Torino]. Nel frattempo l’attività dell’Accademia si è molto ampliata, comprendendo ad esempio una tournée in Giappone.
Degli strumenti a fiato (segnatamente dei legni) lei è pertanto un infaticabile esploratore: oltre al flauto dolce e al flauto traversiere, ha studiato e suona abitualmente anche l’oboe barocco, senza trascurare cromorni e bombarde. Ci dica qualcosa su queste inclinazioni plurime e su come sia approdato, per l’appunto, a questo polistrumentismo.
Il mio primo docente di flauto dolce nel ricreatorio triestino, a cui facevo cenno, rivestì un ruolo determinante, perché disponeva anche di cromorni e altri strumenti antichi ad ancia che richiedono un certo utilizzo del diaframma, un suono rude che trovavo molto affascinante già all’epoca; certo in famiglia si interrogavano sulle ragioni di queste inclinazioni forse non tanto comuni! Ma per così dire evidentemente avevo trovato nell’atto di soffiare un qualcosa che sentivo appartenermi. Per quanto riguarda il polistrumentismo in sé, il punto è che trovo del tutto naturale passare da uno strumento all’altro secondo poi un modo di far musica che è stato tipico di altre epoche, ad esempio del Rinascimento e del Barocco. In tal senso mi sento figlio di una tradizione veramente antica. D’altra parte, nel Conservatorio di Milano, ancora nel primo Ottocento, l’insegnante di fagotto era anche docente di flauto.
Ancora nel secolo XIX essere musicisti equivaleva molto spesso a essere polistrumentisti e compositori. Oggi, in un contesto molto diverso, talvolta si ha l’impressione che alcuni compositori quasi derubrichino a dettaglio il fatto di saper suonare.
Si, all’epoca era del tutto normale. Bisognerebbe rivalutare, almeno per quanto riguarda la musica antica, l’attitudine volta a suonare diversi strumenti, cosa che fanno sempre più giovani e che oltre a rappresentare una corretta e auspicabile attitudine assai utile per comprendere meglio la musica e la flessibilità della musica stessa, rappresenta anche una possibilità ulteriore in termini lavorativi. E questo anche perché il solo flauto dolce ha, si, un repertorio molto vasto, ma non sempre sufficiente per poterci vivere, detto in parole povere.
Il suo percorso è certamente peculiare: da una parte gli studi tradizionali compiuti, lo abbiamo detto, nel ricreatorio prima e in conservatorio in un secondo momento, dall’altra un interesse marcato per la musica rock e metal in particolare, tanto da fare di lei un elemento importantissimo (non esiterei a dire “assolutamente caratterizzante”) della metal band triestina dei Rhapsody of Fire, fondata da suo fratello Alex Staropoli e da Luca Turilli, nota in tutto il mondo. Ci vuole raccontare questo percorso così particolare e interrelato? Qual è stato il momento in cui il flautista dal percorso per così dire tradizionale ha percepito di poter avere un interesse e uno spazio concreto in questo tipo di musica?
Mio fratello Alex, più grande di otto anni, studiava pianoforte. È da lui che ho ricevuto la prima influenza musicale, oltre che dai miei genitori, i quali ascoltavano molta musica, dalla leggera alla classica. Proprio nel momento in cui iniziai a suonare il flauto, mio fratello conobbe Luca Turilli, con cui era solito riunirsi in camera sua per suonare e comporre musica; nel frattempo in un’altra stanza studiavo flauto e gli altri strumenti, e loro ogni tanto drizzavano le orecchie, sino in qualche modo ad assimilare lo stile di ciò che suonavo.
Ci fu quindi una reale influenza reciproca.
Si. Pertanto quando, attorno al ’95, arrivò il momento di mandare una demo delle loro musiche, mio fratello e Turilli mi chiesero di suonare alcune parti di gusto rinascimentale e barocco. È stato quindi tutto molto naturale il “passaggio” tra musica rock e musica classica. Ma queste influenze tra musica classica e musica rock e metal erano nell’aria e si erano già inverate a partire dagli anni Sessanta e Settanta: si prenda a esempio la celeberrima Stairway to Heaven dei Led Zeppelin, dove peraltro viene impiegato proprio il flauto dolce; ecco, le tendenze della musica classica e della musica rock, che a partire dagli anni Novanta avrebbero molto contribuito allo stile dei Rhapsody, avevano finito per comunicare già a quell’epoca.
Viene spontaneo, in tale ambito, citare il chitarrista svedese Yngwie Malmsteen, che è stato fondamentale nel rendere questi stili comunicanti tra loro. Semplificando un po’ potremmo affermare che più che un musicista rock influenzato dalla musica classica, Malmsteen sia per certi aspetti essenzialmente un musicista classico prestato a uno strumento elettrico.
Malmsteen a partire dagli anni Ottanta è stato in tal senso un musicista molto importante. Il suo modo di fare, per così dire il fenomeno che esprime, può addirittura ricordare (naturalmente con tutte le differenze che comportano contesti ed epoche diverse) nientemeno che Paganini.
In quale modo l’universo della musica classica percepisce la sua attività di strumentista e compositore in un contesto come quello dell’hard rock e del metal? Si tratta di un qualcosa che viene accolto con curiosità da parte dei suoi colleghi? Oppure ha riscontrato indifferenza o pregiudizio?
Quantomeno per via diretta ho riscontrato, tanto da parte dei colleghi che degli allievi, dell’acceso interesse. Aggiungiamo il fatto che ritengo del tutto positivo che nei conservatori siano stati introdotti corsi di jazz e pop. Ma qui il discorso costringerebbe a occuparci anche di altre questioni.
Lei ha preso parte a tutte le registrazioni dei Rhapsody sin dal primo disco, Legendary Tales (1997), e da qualche anno ha iniziato a comporre lei stesso.
Premetto di non potermi considerare un compositore, tuttavia qualche mia composizione è stata apprezzata da personalità quali Joey de Maio dei Manowar ed è poi effettivamente confluita in qualche disco dei Rhapsody. Fondamentale naturalmente è stato, come dicevamo all’inizio, l’incontro tra la musica di autori come Vivaldi, Benedetto Marcello e altri e le varie suggestioni provenienti dal mondo del rock.
Torniamo alla musica antica e barocca. Questa tradizione pone, com’è ben noto, questioni di natura filologica e interpretativa che sono andate a irrobustirsi in particolare a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Come sa bene, su questi temi si dibatte moltissimo e vorrei pertanto chiederle quale sia il suo approccio alla filologia, se ritiene sia un falso mito, un auspicio, e in ogni caso come la filologia musicale (compreso naturalmente l’utilizzo di strumenti d’epoca) debba essere maneggiata. E quanto conta lo stile rispetto allo strumento?
Naturalmente lo stile è fondamentale ed è altrettanto chiaro come anche lo strumento sia importante. Se parliamo del flauto traverso moderno e del flauto dolce si tratta di strumenti diversi, il paragone in questo caso non andrebbe neanche fatto, perché un flautista traverso che suona una sonata di Benedetto Marcello non riuscirebbe a riconsegnare una sonorità accostabile a quella presente nella mente del compositore. Sarebbe auspicabile che un allievo potesse imparare lo stile e che frequentasse istituti in cui possa imparare i vari stili, quello di una sonata di Castello [Dario Castello, 1602-1631], quindi di Vivaldi, Bach, Beethoven e così via, sino ad impossessarsi degli stili di oggi. Per quanto riguarda le esecuzioni filologiche, queste possono essere certamente un qualcosa di importante, ma leggere il trattato di Quantz non è sufficiente. A mio avviso, la filologia in musica dovrebbe anche essere legata al vissuto e alla biografia del compositore in senso più ampio, allo strumento impiegato, alla città in cui ha operato, alle sue molteplici influenze; inoltre la filologia dovrebbe considerare anche aspetti quali, che so, le reali abitudini quotidiane, la difficoltà nel reperire la musica, nel copiarla, nell’abbigliarsi, nel riscaldarsi, nella conservazione dei cibi eccetera. Non sembri superfluo tutto ciò, come ho avuto modo di accorgermi in maniera più attenta avendo avuto occasione di prendere parte ad alcune rievocazioni, dove per alcuni giorni si viveva sostanzialmente calati in quelle epoche. Mi viene in mente una rievocazione presso la palazzina di caccia di Stupinigi, dove abbiamo ricreato “La banda degli oboi”, istituita sotto i Savoia a imitazione di quanto avveniva alla corte di Francia, dove esistevano formazioni analoghe. Insomma, la filologia non deve riguardare le soli fonti musicali. Per avvicinarci a comprendere il modo di suonare dell’epoca è necessario compenetrare le fonti con gli aspetti di cui si è appena detto, e tuttavia questo non è ancora sufficiente.
Intensa anche la sua attività didattica, dall’insegnamento presso vari conservatori italiani (attualmente a Trieste, dove insegna flauto dolce e traversiere, e a Torino, dove è docente specificamente di flauto traversiere) a masterclass tenute in alcune tra le istituzioni più prestigiose, dalla Hochschule di Mannheim alla londinese Royal Academy of Music. Il lato didattico è importante per lei?
Ho scoperto una certa attitudine all’insegnamento subito dopo aver concluso gli studi in conservatorio. Dapprincipio mi piaceva insegnare soprattutto ai bambini, poi certo, anche ai ragazzi e agli adulti. La capacità importante dell’insegnante è quella di provare a guidare gli allievi nelle scelte musicali (come talvolta in quelle della vita). A parer mio un bravo insegnante deve avere la capacità di leggere dentro l’allievo, aiutarlo ad esprimere se stesso nelle sue esecuzioni riuscendo, contemporaneamente, a fargli superare le difficoltà che normalmente ognuno di noi si porta dietro, e che forse, grazie alla magia della musica, è più facile superare con serenità.
Marco Testa