HÄNDEL Giulio Cesare in Egitto Raffaele Pe, Mary Bevan, Arye Nussbaum Cohen, Sara Mingardo, Carlo Vistoli, Rocco Cavallini, Angelo Giordano, Patrizio Laplaca; Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Rinaldo Alessandrini regia Damiano Michieletto
Roma, Teatro dell’Opera, 15 ottobre 2023
Questo è il dilemma. Che il Teatro dell’Opera di Roma ha negli anni diversamente risolto, a seconda delle mode, dei tempi e soprattutto del progredire d’una coscienza filologica oggi entrata non solo nelle élites di esecutori e di fruitori specializzati, ma anche in un pubblico che si va facendo sempre più vasto. Così nel 1955 il Giulio Cesare di Händel al Costanzi vedeva schierate le voci maestose e i fisici possenti di Boris Christoff (protagonista, ma lo cantava anche Cesare Siepi), Mario Petri, Franco Corelli, Ferruccio Mazzoli e Antonio Cassinelli (uniche presenze femminili Onelia Fineschi e Fedora Barbieri). Nel 1985 (noi c’eravamo) s’optava per un illustre parterre di grandi dame della belcanto-renaissance, quali Montserrat Caballé, Margarita Zimmermann, Ewa Podles, Daniela Dessì, Bernadette Manca di Nissa. Con loro, spesso sublimi, e con la regia abile di Alberto Fassini e con le scene degli scultori Anne e Patrick Poirier, si dava stupenda realtà ad uno spettacolo che ricordiamo come una totale estasi musicale e visiva.
Era ormai giusto e maturo il tempo di riportare all’Opera il capolavoro teatrale del Sassone e con i criteri aggiornati di cui sopra. Dunque sul podio un nome consacrato dell’esecuzione barocca, Rinaldo Alessandrini, tre controtenori dei più à la page, Raffaele Pe, Arye Nussbaum Cohen e Carlo Vistoli. Oltre a due barocchiste, una di provata esperienza come Sara Mingardo, l’altra di più acerbo conio, come Mary Bevan La regia andava alla star dei registi, d’oggi, Damiano Michieletto, cui da poco il Teatro dell’Opera ha affidato l’intera prossima stagione estiva alle Terme di Caracalla. Al fatto una notevolissima produzione: pur se qualche piccola delusione arrivava proprio dalla direzione d’orchestra, firmata da un Alessandrini che, con il suo Concerto Italiano e con altri complessi, abbiamo in stima assoluta, a dir il vero soprattutto in un repertorio d’epoca più alta e di scuola più francamente italiana. Con Händel ci è sembrato che il maestro romano volesse oltre misura contenere l’energia dinamica e l’orgiastica dovizia di colori che con indubbia esattezza uno Jacobs, un Christie, un Antonini ne hanno tratto in luce. Una certa uniformità dei tempi, una levigatezza classicheggiante prima del tempo, una misura talvolta esigua di sogno, d’incanto, di delirio, di meraviglia, sembravano pesare su questo (non integrale) Giulio Cesare in Egitto. E renderlo curatissimo, levigato ed elegante, ma alla lunga appena monotono. Eppure il palcoscenico sembrava quello ideale per una lettura più fantasiosa. A cominciare dal protagonista, ossia Raffaele Pe. Che con il condottiero romano ha indubbia frequenza, visto che il suo CD Giulio Cesare. A baroque hero, legato alle trasposizioni operistiche settecentesche del personaggio, ha vinto nel 2019 il Premio Franco Abbiati. Raffaele Pe non opta per una lettura assorta, malinconica, quasi crepuscolare, come era stata quella ideale di Andreas Scholl (nella formidabile produzione del 2012 a Salisburgo, con la Bartoli, la von Otter e Jaroussky), lettura in tutto collimante con le più intime istanze del ruolo. Il cantante di Lodi invece ne porta in evidenza il carattere contradditorio, umorale, tirannico: e dunque ora nobile e altero, ora capriccioso e beffardo. La voce di Pe ha un’indubbia potenza, ma non è sempre bellissima (sovente negli acuti a pieno volume è gridata e fissa); il virtuoso però ha armi assai importanti al suo seguito e le agilità mirabolanti, le nuances dinamiche, la capacità di cogliere i continui cangiamenti di sensi e d’affetti che il compositore gli propone, sono apparse di notevole rilievo. E vorremmo additare soprattutto la resa dell’arcadico “Se in fiorito ameno parato” e la qualità veramente non comune dei celebri “Col lampo dell’armi” e “Dall’ondoso periglio”. Mary Bevan non è stata una Cleopatra memorabile. Questa giovane inglese non manca di avvenenza in scena e di una piccola, piacevole voce. Ma quello dell’ultima regina d’Egitto è ruolo da gran primadonna e senza pretendere d’aver presenti o redivive Beverly Sills o la Caballé o la Bartoli, forse un po’ più di sostanza e di regalità e di prodigi virtuosistici era lecito attendersi.
Ciò che invece giungeva puntualmente dal favoloso Sesto di Arye Nussbaum Cohen, un giovane controtenore di Brooklyn che sta già salendo a passi veloci i gradini della notorietà e che – a cominciare da un impeccabile “Svegliatevi nel core” arrivando al finale “Tutto lice sperar” — ha esibito un timbro bellissimo, un canto d’incredibile scioltezza virtuosistica e accenti sempre calzanti, perentori o patetici che si richiedessero. Non gli è stato certo da meno il nostro Carlo Vistoli, nome ormai di punta fra i controtenori odierni e che a Tolomeo ha dato una caratterizzazione non solo era spettacolare dal punto di vista vocale, ma che univa un dominio attoriale del palcoscenico di eccezionale, talora irriverente bravura. Rispettiamo troppo una personalità essenziale alla storia del canto barocco contemporaneo, qual è Sara Mingardo, per dire appena di sfuggita che una qual stanchezza vocale era percepibile, che trucco e costumi non le erano adatti e che una distorsione ne ha ridotto la mobilità scenica. Ottimo infine l’Achilla di Rocco Cavalluzzi.
Regista e demiurgo della messa in scena era Damiano Michieletto: per quella che è una nuova produzione realizzata con il Théâtre des Champs-Élysées, l’Oper Leipzig, l’Opéra Orchestre National de Montpellier-Occitanie e il Capitole de Toulouse, presentata in prima assoluta l’11 maggio 2022 appunto al parigino Théâtre des Champs-Élysées. È un Michieletto particolarmente raffinato quello che abbiamo visto: spazi lineari vuoti, colori e accostamenti o contrasti molto fashion, pochi e rari anzi gli oggetti o le sculture in scena, costumi moderni o astratti. Qualche sberleffo qua e là, come suole (il petardo che esplode con zampilli di coriandoli), qualche caduta di gusto (le perversioni esercitate su Cornelia ci potevano essere risparmiate), un’atmosfera da high class corrotta e decadente (Cleopatra entra ubriaca con una coppa di champagne in mano) in fondo pertinente. Tanta rarefatta sciccosità, non lo neghiamo, era gradevole e (una volta tanto, oggi) non offensiva: ma alla fine delle oltre tre ore di spettacolo un nonnulla monocorde e ripetitiva. Successo indiscutibile.
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni