BRITTEN Peter Grimes B. Jovanovich, N. Car, O. Sigurdarson, M. Plummer, P. Rose, N. Petrinsky, L. Melrose, B. Hulett; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Simone Young regia Robert Carsen scene e costumi Gideon Davey
Milano, Teatro alla Scala, 24 ottobre 2023
Non sono il primo a scriverlo (l’ha fatto con la consueta chiarezza il collega Alberto Mattioli sulla Stampa), ma d’altronde è il pensiero comune che tutti noi “dell’ambiente” abbiamo avuto quando la Scala presentò l’attuale stagione 22/23: era proprio il caso di affidare a Robert Carsen, forse il massimo regista vivente, un nuovo allestimento di Peter Grimes quando nel 2012 a Milano si vide un meraviglioso spettacolo di Richard Jones, mai più ripreso, e quando un capolavoro come Billy Budd, per rimanere in ambito britteniano, ancora deve fare il suo ingresso nelle Sacre Soglie piermariniane?
Prevedibilmente, poi, Carsen ha fatto un lavoro magnifico, ancorché con qualche sospetto di manierismo: una scena fissa che diventa di volta in volta tribunale del Borgo, locanda, casa di Grimes, i cui semplicissimi elementi scenici (un tavolo, delle panche) sono mossi da servi di scena, sorta di kuroko spostati sul mare del Suffolk (che peraltro non è mai presente a livello visivo, se non in una proiezione: scelta coraggiosa e gestita benissimo) i cui movimenti sono talmente ben realizzati da dare l’idea, nella scena finale, di un vero naufragio del tavolo-barca su cui Grimes è appoggiato. Ma d’altronde, la grandezza di Carsen si vede sia nei dettagli – la cura della recitazione di ogni singolo corista, il rapporto fra microscene e idea complessiva, le luci livide eppure intensamente caratterizzanti – sia nel progetto complessivo, quello di un tribunale perpetuo che un Borgo moralista e cinico intenta al Peter Grimes di turno, e la cui caccia alle streghe può colpire tutti, anche noi che stiamo tranquilli in platea a guardare. E quindi che la scena finale sia identica a quella iniziale ha una sua logica addirittura stringente. Meno efficaci, o comunque meno necessarie, mi sono parse le proiezioni che enfatizzano, a mo’ di cinema espressionista, i volti scavati del protagonista; in sintesi uno spettacolo di altissimo livello, emozionante e intelligente, che però non riesce a farmi dimenticare quello sopra citato di Richard Jones, ambientato in una derelitta cittadina marina dell’Inghilterra anni ’80, devastata dal thatcherismo e in cui si avvertiva anche fisicamente l’incombere minaccioso di gabbiani e il putridume morale e fisico degli abitanti.
Al suo debutto alla Scala, subito dopo la Turangalîla in cui ha sostituito Zubin Mehta, l’australiana Simone Young ha impostato una lettura di grande concretezza, energica (nel primo atto anche troppo) nelle sonorità, in cui l’umanità del protagonista riluce solo per brevi momenti, per bagliori improvvisi che contrastano ancor di più con la crudeltà e il grigiore complessivo. Non cerca le sonorità evanescenti, di lividore metallico che altri direttori hanno evocato, specie nei celebri Interludi marini (e anche lo stesso Britten, nella celebre incisione del ’58, sembrava andare in quella direzione): e in effetti l’apertura del terzo atto risuonava eccessivamente terragna. Ma per il resto Simone Young ha messo in mostra una professionalità a prova di bomba e una grande abilità tecnica: a dimostrazione del fatto che il sesso del direttore conta solo per chi non ha altri argomenti da metter in campo. E con lei c’era un ottimo cast: che coinvolgeva uno stuolo di comprimari virtualmente perfetti, il Balstrode energico e carismatico di Ólafur Sigurdarson e, come protagonista, Brandon Jovanovich, capace di intensi ripiegamenti e di energici squilli. Un Grimes, il suo, a metà tra Pears e Vickers (per citare i due modelli archetipici), e davvero intenso nella finale “scena di follia”. Ma un gradino sopra io metterei Nicole Car, che era Ellen Orford: rarissimo sentire una voce di così bruciante intensità, luminosa e tagliente nell’emissione, ma capace anche di ripiegamenti improvvisi e di un fraseggio pieno di sospensioni e incupimenti nella scena del terz’atto, “Embroidery in childhood”. Grandi applausi, nei limiti delle abitudini sempre così sgarbate dei frequentatori del turno A scaligero.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano, Teatro alla Scala