VIVALDI L’estro armonico op. 3 Concerto Italiano, direttore Rinaldo Alessandrini
Roma, Parco della Musica, Sala Sinopoli, 3 aprile 2024
Non è frequente ascoltare nelle stagioni concertistiche tutto l’Estro Armonico di Vivaldi. Lunga e difficile, tal integrale offre tuttavia uno sguardo di impressionante ampiezza sul genio d’uno dei tre-quattro più grandi compositori dell’epoca barocca. Pubblicata ad Amsterdam alla fine del 1711 dal prestigioso editore Estienne Roger, l’Opera Terza di Vivaldi s’affermava subito in Europa con un successo straordinario e offriva al suo autore, poco più che trentenne, una renommée formidabile. Anzitutto per l’originalità delle combinazioni con cui il piccolo organico (dieci musicisti compreso il continuo) viene composto e scomposto: quattro concerti per quattro violini (con o senza violoncello); tre per due violini; quattro per violino solo, con una costante alternanza di modo maggiore e modo minore, che tuttavia Alessandrini e il Concerto Italiano non hanno rispettato, preferendo chiudere la serata col concerto n. 10 in si minore piuttosto che col n. 12 in mi maggiore, scelta singolare e tutt’altro che necessaria. Comunque sia, se l’Estro Armonico ha tra le sue filosofie quella di Giambattista Marino — “È del poeta il fin la meraviglia (parlo dell’eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir, vada alla striglia” — ebbene essa è da Vivaldi raggiunta e colmata concerto dopo concerto, movimento dopo movimento, battuta dopo battuta. E poi in fondo con mezzi di stupefacente semplicità: i temi degli allegri hanno spunti soprattutto ritmici, quelli degli adagi melodie brevi e accattivanti. E gli intricati contrappunti degli otto archi, appena integrati dal continuo, gli impasti di timbri e colori, le repentine alternanze di luci ed ombre, i voli ariosteschi al cielo d’Orlando dei solisti, pongono questo Vivaldi all’approdo meramente strumentale, ma sublime, della grande scuola polifonica — madrigalistica o sacra che fosse — del Cinquecento e Seicento veneziano e non solo.
L’interpretazione che Alessandrini e il Concerto italiano ne hanno dato impone grande rispetto, ma forse per noi minore entusiasmo. La via scelta è quella d’una sorta di classicismo ante litteram, d’una levigatezza assoluta, d’una precisione e d’una eleganza innegabili. Nessuna frenesia, nessuna sensualità, nessuna ebbrezza però hanno segnato l’esecuzione dei dodici concerti e soprattutto del Libro Primo. È parso come se Alessandrini avesse voluto proclamare una reazione alle letture esaltanti, talora ba-rock, di Spinosi, del primo Currentzis, di Riccardo Minasi e della Scintilla o del Pomo d’oro con Maxim Emelyanychev. Sì che la mirabile galleria di coloratissimi quadri dipinti dal Prete Rosso, è parsa come inserita in una modern frame o talora addirittura posta sotto una teca di metallo e plexiglass. Se a ciò s’aggiunge una qualche complessiva aridità di suono, si comprenderà come questo Vivaldi abbia finito per entusiasmare il pubblico, che riempiva fino al soffitto la Sala Sinopoli (milleduecento posti) per la pura, dirompente forza della sua musica, per la capacità d’una tal epifania del genio di superare qualsiasi modello esecutivo e d’arrivare ad affascinare (qui) la mente o (altrove) il cuore e i sensi, in modo irresistibile. Applausi travolgenti, infatti e richieste di bis, pur essendo la durata del concerto d’oltre cento minuti.
Maurizio Modugno