Il sogno di Turandot alla Scala

PUCCINI Turandot A. Netrebko, Y. Eyvazov, R. Feola, R. Gimenez, V. Kowaljow, S.H. Damien Park, C. Wang, J. Xiahou, A. Gramigni; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Gamba regia Davide Livermore scene Eleonora Peronetti, Paolo Gep Cucco, Davide Livermore costumi Mariana Fracasso

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2024

La Scala prosegue le celebrazioni pucciniane — che termineranno il 20 novembre con il concertone Chailly-Kaufmann-Netrebko — con una nuova produzione di Turandot, nove anni dopo quella che aveva inaugurato l’Expo milanese e che aveva avuto il merito di proporre il finale completato da Berio: che, delle quattro soluzioni principali possibili (non considerando quindi vari completamenti poco o pochissimo noti), a me pare la preferibile. Se troncare l’opera alla morte di Liù è d’effetto ma inefficace, dei due finali Alfano è certamente da preferire quello completo, prima dei selvaggi tagli toscaniniani; ma la raffinatezza e il senso di mistero, di sospensione conferiti da Berio sono qualcosa che secondo me aderisce in maniera più vera e intensa alle estreme intenzioni di Puccini. Qui però abbiamo ascoltato il consueto Alfano II: non una scelta di Michele Gamba, che si è trovato a sostituire un Daniel Harding in congedo di paternità, e il repentino, poco credibile happy end si è rivelato anche il momento più banale e pacchiano (con tanto di pioggia di strisce di carta riflettente rossa) dello spettacolo di Davide Livermore. Il quale impone, per il resto, la sua solita cifra stilistica fatta di ampio uso di proiezioni, di un bric à brac generalizzato in cui comunque è sempre avvertibile la mano dell’uomo di teatro: in un Oriente generico, in un’epoca non ben definita questa umanità sembra sgusciare dall’oscurità e in essa rientrarvi, con un senso di inquietudine e violenza che ben si adattano all’opera. Ben poco di favolistico, quindi: i tre ministri sono le proiezioni dell’inconscio di Calaf, e persino l’Imperatore viene dal popolo. C’è la grande scalinata, topos scenografico delle Turandot più tradizionali, ma quasi a connotare in senso simbolico la Principessa (doppiata dalla personificazione dell’ava Lou-Ling), che vive in bilico tra mondo “di sopra” (un’ampia piattaforma rosso sangue) e quello “di sotto”. Una Turandot sovraccarica, ma certamente ben gestita: resto comunque convinto che la sottrazione visiva convenga meglio ad una partitura già così variopinta dal punto di vista sonoro. Michele Gamba punta tutto sull’elemento ritmico: una Turandot, la sua, scintillante di ritmi e sonorità incisive (ma mai soverchianti, come si è letto in altre recensioni), capace di notevoli raffinatezze di concertazione, senza però indugiare alla delibazione delle preziosità timbriche (alla Karajan, per intenderci). Anche nel coro alla luna del primo atto gli interventi dei legni avevano una nettezza, una fenditura luminosa completamente priva del flou cui tanti direttori indugiano: ma di Gamba ho anche molto apprezzato la gestione libera eppure rigorosa dell’agogica, ad esempio in “Tanto amore segreto”, davvero uno stupendo esempio di gestione ritmica in perfetto accordo con la cantante. Grande attesa c’era per la Turandot di Anna Netrebko, che avevo già ascoltato nei panni della Principessa di morte all’Arena, ed ero restato ammirato dalla sua capacità di proiettare la voce nei grandi spazi aperti senza apparente sforzo. Al chiuso, la Netrebko raffina la sua dizione (raramente ascoltata così nitida), lavora sulle sfumature, sui colori e insomma giunge a fornire un ritratto di grande fascino femminile della sua Turandot, solo occasionalmente palesando qualche piccolo sforzo negli estremi acuti: ed è perfetto il rapporto della sua voce con quella di Rosa Feola, che lavora senza sosta su dettagli e sfumature e arriva, nella grande scena finale, a commuovere il pubblico, che le perdona volentieri una certa esilità del registro centrale. Yusif Eyvazov (fresco di annuncio di separazione da Anna) è sempre uguale a sé stesso, nel bene di un registro acuto e di una musicalità a prova di bomba (il primo anzi troppo esibito, persino nella prodezza circense, alla Bonisolli, dei quattro do alla frase “ardente d’amor”), nel male di un timbro chioccio che, nel passaggio e nei primi acuti, tende a stringersi e a risultare poco gradevole: ma son discorsi ormai noti e stranoti. Né potremo sentire nelle prossime recite l’annunciato Roberto Alagna, che è indisposto. Modesti sia il Timur di Kowaljow che il terzetto delle maschere, nonostante la provenienza orientale (un coreano e due cinesi): e curiosamente — ma forse no — la prima scena del secondo atto era anche poco indovinata dalla regia e dalla bacchetta, che ha apportato i due soliti, piccoli tagli di tradizione. Una certezza, infine, il coro di Alberto Malazzi e così l’orchestra scaligera. Dovrei poi parlare della trovata di Livermore di far distribuire al pubblico piccoli lumini, fatti accendere dopo la morte di Liù, mentre sul palco appare un grande medaglione di Puccini con la scritta “qui il Maestro morì”: ma è meglio lasciare perdere, per carità di patria. Grande successo tributato da un pubblico più turistico che mai.

Nicola Cattò

Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala

Data di pubblicazione: 5 Luglio 2024

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