PUCCINI Turandot S. Hernández, M. Nardis, M. Pertusi, R. Aronica, S. Zanetti, S. Alberghini, V. Buzza, P. Antognetti, A. Gabba, A. Zanetti; Orchestra e Coro del Teatro La Fenice direttore Francesco Ivan Ciampa maestro del coro Alfonso Caiani regia Cecilia Ligorio scene Alessio Colosso costumi Simone Valsecchi Light designer Fabio Barettin
Venezia, Teatro La Fenice, 8 settembre 2024
Ritorna in chiusura della stagione 2023-2024 (resta solo il dittico celebrativo Luigi Nono-Arnold Schönberg), ultima spettacolo dell’era Ortombina, la Turandot di Giacomo Puccini nell’allestimento del 2019 di Cecilia Ligorio (scene di Alessia Colosso, costumi di Simone Valsecchi e light design di Fabio Barettin).
Una produzione che all’epoca non riscosse particolari consensi per un’impostazione registica e scenografica che trascura quasi del tutto l’ambientazione orientale e fiabesca in favore di un’astrattezza che non sempre convince. La scena è delimitata da una cornice di lacca blu di foggia orientale, che inquadra la storia di Calaf e Turandot. Sul palcoscenico pochi elementi: un praticabile sospeso su cui si muove la “principessa di gelo”, separata fisicamente dal suo popolo; la luna sullo sfondo, a forma di sciabola, che precipita come una ghigliottina sui pretendenti che via via si cimentano nella soluzione degli enigmi; una moltitudine di lampadine a rappresentare le stelle che cessano di brillare con la morte di Liù. Infine, un sole abbagliante in chiusura dell’opera.
I costumi ritraggono tre diversi tipi umani: Turandot, Calaf, Liù, Timur e l’Imperatore sono agghindati secondo fogge orientali antiche e sembrano, in questo contesto, personaggi di una fiaba senza tempo; il popolo ha abiti contemporanei tutti uguali, che lo rendono una massa indistinta e senza personalità. Il Mandarino veste con trench e ventiquattrore e assume una rilevanza inconsueta sulla scena, mentre i tre ministri, Ping Pong e Pong, indossano un frac rosso con braghe attillate e stivali neri, senza che si capisca a cosa voglia alludere il loro costume.
Incongrua poi la presenza di “donnine” agghindate con doppie corna mandate sul finale a sedurre Calaf perché rinunci a Turandot. Per nulla si è cercato piuttosto di risolvere il problema del troppo repentino “scioglimento” della principessa di gelo che, se musicalmente sconta l’affrettato completamento di Franco Alfano dopo la morte di Puccini, offrirebbe invece uno spazio di invenzione intrigante (e che pochi registi sfruttano).
Il cast schierato dal Teatro veneziano vedeva molti punti di forza e alcuni sottotono. A prendere il posto dell’indisposta Maria José Siri è arrivata una sostituta di lusso, la spagnola Saioa Hernández: voce d’acciaio, ricchissima di armonici e in grado di riempire il teatro. Sicura in tutti i passaggi di una parte quantomai improba, ha ritratto una principessa lontana, crudele, distante dal suo popolo e chiusa nel silenzio del suo mistero. Senza speranza, (quasi) senza passione, senza amore. Vocalmente però in grado di sedurre in forza di acuti timbratissimi, di un legato immacolato e di una bellezza timbrica rara. Impossibile resisterle. Peccato che non fosse sullo stesso livello il principe ignoto di Roberto Aronica con il suo canto tutto di forza, acuti metallici, poche (se non nulle) sfumature, il quale arriva all’aria più famosa (“Nessun dorma”) con voce provata al punto da spezzare la frase finale (“vin-cerò”) con effetto davvero di cattivo gusto. Ottima la Liù di Selene Zanetti che canta le sue due arie in maniera commossa, ritraendo una fanciulla innamorata e decisa al sacrificio. Non a caso è stata premiata con convinti applausi da parte del pubblico. Da ricordare il Timur di Michele Pertusi, che ha cantato le sue frasi con grande calore ed umanità, come eccellente il trio delle maschere, tra le quali si è distinto il Ping di Simone Alberghini. Degno di menzione anche l’Altoum di Marcello Nardis.
A tenere in pugno palcoscenico ed orchestra la bacchetta di Francesco Ivan Ciampa, la cui direzione si è distinta per toni quasi espressionistici con suoni taglienti, percussioni dalla forza invadente e alcune discrasie tra buca e palco. Le ondate di suono cui ha lasciato andare la compagine orchestrale hanno tratteggiato un mondo quasi primitivo e aspro, interessante ma alla lunga pesante, mentre non altrettanto evidente è apparso il côté lirico e le raffinatezze di un’orchestrazione tra le più raffinate del Novecento.
Applausi convinti al termine della recita, in particolare per Hernández, Zanetti e Pertusi.
Stefano Pagliantini