BEETHOVEN Sinfonia n. 8 in Fa maggiore op. 93; Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 soprano Lenneke Ruiten mezzosoprano Eleonora Filipponi tenore Bernard Richter baritono Markus Werba Orchestra Mozart, Coro del Teatro Comunale di Bologna, direttore Sir John Eliot Gardiner
Milano, Conservatorio, Sala Verdi, 21 settembre 2024
Sarà stata la presenza della Nona, sarà stato l’interesse per il ritorno di Gardiner, sarà stata la serata celebrativa (era l’apertura di stagione della milanese Società del Quartetto), ma vedere una Sala Verdi stracolma, con tanto di persone in coda nell’attesa di qualche biglietto non previsto in piantina, è una cosa che fa davvero bene al cuore: e all’inizio del concerto la Presidente Ilaria Borletti Buitoni (che non si è trattenuta da una breve lamentazione sull’esiguità dei fondi ministeriali…) ha ricordato trattarsi della 160esima stagione della veneranda istituzione, che davvero ha accompagnato tutta la storia d’Italia.
Come è noto all’universo e in altri lidi, l’indisposizione di Daniele Gatti gli ha impedito di concludere il ciclo delle sinfonie beethoveniane con l’Orchestra Mozart: all’ultimo istante è stato convocato Sir John Eliot, finalmente libero dalle umilianti, ridicole espiazioni pubbliche cui il mondo anglosassone in primis, travolto dalle fisime del politically correct in ogni sua articolazione, l’ha costretto negli ultimi mesi. Arrivato martedì a Bologna, e con il primo dei tre concerti previsto per il giovedì sera a Ferrara, è chiaro che non si poteva aspettarsi da lui una lettura del tutto rispondente alle sue idee interpretative: ma quanto si è ascoltato ne porta comunque, nonostante gli esigui tempi di prova, segni evidenti. Non credo sia una sua idea raddoppiare i corni dell’Ottava e aggiungere un quinto corno “di sostegno” nella Nona: e la densità di suono che ne deriva, anche per un organico non pletorico ma certamente ricco, la attribuirei più al progetto di Gatti che alle scelte del collega inglese. Tanto più se l’ascoltatore ha in mente le celebri incisioni Archiv con l’Orchestre Revolutionnaire et Romantique (dove la Nona, per dirne una, durava un’ora esatta!). Ma il Gardiner di qualche decennio fa non è evidentemente il Gardiner di oggi: rivoluzionario allora (giusto il nome dell’orchestra…), oggi è un signore di 81 anni che fa tesoro di quell’esperienza ma la aggiusta a una nuova sensibilità personale e, soprattutto, a un mutato contesto musicale. La faccio breve: se l’accostamento tra due sinfonie apparentemente così diverse come le ultime due di Ludwig van poteva essere rischioso, Gardiner rende la prima la premessa necessaria della seconda, riducendo l’apparentemente ampio iato. Fin dalle prime note dell’Ottava sentiamo un fraseggio benissimo articolato, elettrico, in cui le singole frasi non vengono “agglutinate” in un’idea di bellezza estetizzante: della lezione hip (Historically informed performance, per i non adepti) Gardiner mantiene l’idea di un suono che non abbia una costante patina uniforme, ma ove i timbri siano sempre individuabili (certo, con gli strumenti moderni i contrasti sono meno netti), le sezioni orchestrali incisive e dotate di evidente personalità. Un’Ottava, in definitiva, non neoclassica e bucolica, ma di forte incisività drammatica, forse un po’ ingessata nel Minuetto (la dimensione ironica, giocosa era in effetti un po’ assente dalle idee di Gardiner), e che negli echi dei corni (ottimi qui, un po’ meno nella Nona) nel Trio evocava densità weberiane.
Se l’Ottava “addensava”, la seguente sinfonia “alleggeriva” il tradizionale portato metafisico, a partire dai celeberrimi salti di quinta discendente dell’apertura, che risuonavano secchi e netti, lucenti come un brivido; con uno stacco di tempi che solo nell’Adagio mi è parso davvero eccessivamente veloce — e in contrasto, poi, con quello degli altri tre movimenti –, questa Nona appariva, niccianamente, “troppo umana”. O forse “molto umana” in un fraseggio sempre incisivo, movimentato, inquieto, senza quella grandiosità solenne che la connota anche nei momenti tradizionali: anche, per capirci, nell’“Inno alla gioia” finale, la cui prima enunciazione da parte di violoncelli e contrabbassi appariva sommessa e inquieta. Un Beethoven, insomma, ricco di spunti di interesse, forse non del tutto risolto, ma capace di aprire l’ascoltatore al dubbio, alla riflessione, al riconsiderare abitudini d’ascolto: e non è poco. Detto che il Coro del Comunale di Bologna si è mostrato all’altezza, che l’Orchestra Mozart vanta un’eccellente qualità media, si dovrebbero accomunare i quattro solisti di canto nel consueto plauso collettivo: ma Markus Werba, benché molto più a fuoco che con Chailly qualche mese fa, mi sembra sempre stilisticamente spaesato nel recitativo d’ingresso (e la presa di fiato a spezzare la parola freuden-vollere è censurabile), laddove Bernard Richter e Lenneke Ruiten escono con molto onore dagli aspri cimenti vocali che Beethoven riserva loro. Del trionfo finale inutile dire: qualsiasi Nona ha questo effetto, e a Milano non si è fatta eccezione.
Nicola Cattò